Archivi categoria: giustizia

Fate schifo(Marco Travaglio)


Fatto Quotidiano 13/03/2012 di Marco Travaglio
Ma interessa ancora a qualcuno sapere perché ven t ’anni fa è morto Paolo Borsellino con gli uomini di scorta? Sapere perché l’anno seguente sono morte 5 persone e 29 sono
rimaste ferite nell’attentato di via dei Georgofili a Firenze, altre 5 sono morte e altre 10 sono rimaste ferite in via Palestro a Milano, altre 17 sono rimaste ferite a Roma davanti alle basiliche? Interessa a qualcuno tutto ciò, a parte un pugno di pm, giornalisti e cittadini irriducibili? Oppure la verità su quell’orrendo biennio è una questione privata fra la mafia e i parenti dei morti ammazzati? È questa, al di là delle dotte e tartufesche disquisizioni sul concorso esterno in associazione mafiosa, la domanda che non trova risposta nel dibattito (si fa per dire) seguìto alla sentenza di Cassazione su Marcello Dell’Utri e alle parole a vanvera di un sostituto Pg. O meglio, una risposta la trova: non interessa a nessuno. A parte i soliti Di Pietro e Vendola, famigerati protagonisti della “foto di Vasto” che va cancellata o ritoccata come ai tempi di Stalin, magari col photoshop, non c’è leader politico che dica: “Voglio sapere”. Anzi, dalle dichiarazioni dei politici che danno aria alla bocca senza sapere neppure di cosa parlano, traspare un corale “non vogliamo sapere”. Forse perché sanno bene quel che emergerebbe, a lasciar fare i magistrati che vogliono sapere: il segreto che accomuna pezzi di Prima e Seconda Repubblica, ministri e alti ufficiali bugiardi e smemorati, politici, istituzioni, apparati, forze dell’ordine, servizi di sicurezza. Quel segreto che viene violato solo quando proprio non se ne può fare a meno perché mafiosi e figli di mafiosi han cominciato a svelarlo. Quel segreto che ha garantito carriere ai depositari e ai loro complici. Già quel poco che si sa – che poi poco non è – è insopportabile per un sistema che si ostina a raccontarci la favoletta dello Stato da una parte e dell’Antistato dall’altra, l’un contro l’a l t ro armati. La leggenda del “mai abbassare la guardia”, delle “centinaia di arresti e sequestri”, “della linea della fermezza”, del “tutti uniti contro la mafia”, mentre dietro le quinte si tresca con quella per venire a patti, avere voti, usarla come braccio armato e regolare i conti sporchi della politica, rimuovendo un ostacolo dopo l’altro: da Mattarella, La Torre, Dalla Chiesa, giù giù fino a Falcone e Borsellino. Ora, nel ventennale di Capaci e via D’Amelio, prepariamoci a un surplus di retorica, nastri tagliati, cippi, busti e monumenti equestri, moniti quirinalizi, lacrime tecniche e sobrie, corone di fiori delle alte cariche dello Stato (anche del presidente del Senato indagato per concorso esterno che spiega all’Annunziata la sua teoria di giurista super partes sul concorso esterno senza neppure arrossire). Sfileranno in corteo trasversale quelli che -come da papello – han chiuso Pianosa e Asinara, svuotato il 41-bis facendo finta di stabilizzarlo come da papello, abolito i pentiti per legge, tentato di abolire pure l’ergastolo, regalato ai riciclatori mafiosi tre scudi fiscali. Quelli che han detto “con la mafia bisogna convivere” e ci sono riusciti benissimo. Casomai interessasse a qualcuno, i disturbatori della quiete pubblica riuniti nell’Associazione vittime di via dei Georgofili, guidata da una donna eccezionale, Giovanna Maggiani Chelli, hanno appena reso noto la sentenza con cui la Corte d’assise di Firenze ha mandato all’ergastolo l’ultimo boss stragista, Francesco Tagliavia. “Una trattativa – scrivono i giudici – indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un do ut des. L’iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia”. Dopo il concorso esterno, se ci fosse un po’ di giustizia, la Cassazione dovrebbe abolire anche la strage. Oppure unificare i due reati in uno solo, chiamato “schifo ”.

Agnese Borsellino a Subranni: da lui solo insinuazioni


da redazione del Fatto Quotidiano 11/03/2012
“Le insinuazioni del generale Antonio Subranni non meritano alcun chiarimento. Si
commentano da sole”. Agnese Piraino Leto, vedova di Paolo Borsellino, replica in modo secco alle dichiarazioni dell’ex comandante del Ros riportate oggi dal Corriere della Sera. Subranni si richiama a un passaggio di un verbale del 2010 nel quale la signora
Borsellino riferisce una confidenza del marito. Da lui avrebbe appreso che Subranni era in rapporto con ambienti mafiosi e che era stato “punciutu”, punto, in un rito di affiliazione a Cosa nostra. Il generale nell’intervista sostiene che si tratta di “falsità” e aggiunge: “Purtroppo, la signora Borsellino non sta bene in salute. Forse un Alzheimer, non so quando cominciato”.
La patologia, interviene il figlio Manfredi Borsellino, è ben altra e in ogni caso “mia madre è la più lucida di tutti noi”. “Subranni – prosegue Agnese Piraino Leto – ha scelto il modo peggiore di difendersi. Non replicherò in alcuna sede”. Lo farà, annuncia, con una lettera al marito che leggerà alla vigilia dell’anniversario della strage del 19 luglio 1992.

“Formigoni, tempo scaduto”. Pd, Idv e Sel chiedono le dimissioni del governatore.

“Formigoni, tempo scaduto”. Pd, Idv e Sel chiedono le dimissioni del governatore..

La mafia non esiste (Marco Travaglio).

La mafia non esiste (Marco Travaglio)..

Quella “macelleria” che cambiò la polizia DIAZ, LE PAROLE CHOC DEL QUESTORE FOURNIER

dal Fatto Quotidiano 1/03/2012 Autore: Silvia D’Onghia e Malcom Pagani

ALTA TENSIONE
sembrava una macelleria messicana” disse in tribunale Michelangelo Fournier ai giudici genovesi.
Il vicecapo del VII nucleo del reparto mobile di Roma in servizio effettivo alla Diaz. L’enigma vivente di una lunga notte iniziata il 22 luglio 2001 e non ancora terminata. Né santo né eroe, ma l’unico individuo in divisa che entrò in relazione con le vittime di un assalto brutale, si tolse il casco, allontanò spintonando aguzzini con la pettorina: “Basta, basta” e temendo che la tedesca Melanie Jonasch fosse morta: “Io sono rimasto terrorizzato, basito quando ho trovato la ragazza con la testa aper ta” interruppe il massacro. Una figura complessa che, fotografata nelle sue contraddizioni e senza beatificazioni, il regista Daniele Vicari traspone nel film Diaz con fedele aderenza alla dialettica esposta da Fournier in un’aula giudiziar ia.
FOURNIER, l’unico poliziotto in grado non promosso sul campo per la mattanza di via Cesare Battisti, parlò di “macelleria messicana” in due distinte occasioni. Deposizioni sofferte, in bilico tra verità e senso della comunità da preservare: “Sono nato in una famiglia di poliziotti, non ebbi il coraggio di rivelare un comportamento così grave da parte dei miei colleghi”. L’ultima volta, nel giugno 2007, ammise di non aver avuto la forza di dire tutto ciò che sapeva “per spirito di appartenenza”. Michelangelo Fournier, l’uomo d’ordine con il cuore a destra che divideva le ricreazioni scolastiche con l’ex parlamentare verde Paolo Cento. Il “pentito” come semplicisticamente dissero in molti. Il dirigente detestato da un pezzo consistente di movimento secondo il quale non si decise a confessare sulla spinta dell’indignazione, ma solo perché riconosciuto da alcune vittime dell’assalto alla Diaz. Fournier, il funzionario avversato dai quadri che videro nella sua opposizione a Canterini, un’eversione inaccettabile per tempi, modi e forma. Nella pellicola prodotta da Fandango si vede Claudio Santamaria
(che lo interpreta) con la maglietta della Folgore, mentre all’alba delle dieci di sera (circa un’ora prima dell’assalto alla Diaz) tenta di consumare in compagnia di un paio di colleghi un pasto nel ristorante improvvisato per le Forze dell’ordine in zona Fiera. Viene avvicinato da Vincenzo Canterini. I due sono diversissimi per carattere e inclinazione. Entrambi stravolti. Svegli da ore. Davanti ai Pm Zucca e Cardona, il racconto di Fournier è una lama: “Il comandante Canterini poi venne da me e disse: ‘C’è la necessità di raggruppare immediatamente gli uomini, è stata individuata una struttura presso la quale sembra abbiano trovato ricovero buona parte degli Anarco Insur rezionalisti’”. Le stesse frasi
Nel film di Vicari gli eccessi e le violenze degli agenti al G8 di Genova nel 2001 che fanno dire: mai più
del film. Una menzogna. Troppi “s e m b ra ”. Un’unica conseguenza. Oltre 90 feriti. Due tentati omicidi. Fratture multiple. I reparti di Canterini e Fournier, seguendo strade diverse, arrivano alla scuola Diaz. Il secondo giunge quando le operazioni di sfondamento del cancello sono in corsa, ma è tra i primi a entrare. Sale le scale, forse sferra qualche colpo (c’è concitazione, molti testi-
Sangue di Stato
Una scena del film “Diaz” di Daniele Vicari che testimonia l’irruzione nella scuola e le violenze della polizia ai danni dei manifestanti inermi. In basso, M i ch e l an ge l o Fournier (FOTO ANSA)
moni glielo imputano e Vicari, in ogni caso, non opta per il manicheismo e lo mostra) poi arriva al primo piano. Lì si ferma. “Ho trovato in atto delle colluttazioni. Quattro poliziotti, due con cintura bianca e gli altri in borghese stavano infierendo su manifestanti inermi a terra (…)”. Fournier vede la Jonasch, chiede aiuto: “C’e ra n o dei grumi che sul momento mi sembrarono materia cerebrale. Ho ordinato per radio ai miei uomini di uscire subito dalla scuola e di chiamare le ambulanze”. Così nella realtà ricordata da Fournier. Così nella finzione sinistramente reale riproposta da Vicari. Fournier domanda scusa all’amica della Jonasch, Jennette Dreyer.
UNA REAZIONE incongrua, spiegabile solo con un cambio di prospettiva definitivo, che è quello che sembra aver colpito, forse anche oltre le sue volontà, il Fournier del dopo G8. Non lo stesso uomo che sapeva dirigere l’o rd i n e pubblico allo stadio con il dialogo e la fermezza. Ma un altro da sé. Nella terra di mezzo tra l’essere poliziotto o cittadino. Non più innocente comunque, dopo aver visto e partecipato agli interni della Diaz. Vicari lo inquadra mentre esce dalla scuola e si avvicina a Canterini. Il comandante gli ordina di sistemare i “pr igionier i” sui blindati. Fournier si ribella. L’altro ribadisce l’ordine. I due si perdono di vista. Fournier va brevemente a Bolzaneto. Poi va altrove. Cerca di allontanarsi da una storia che comunque lo inseguirà per tutta l’esistenza. Quando il pm gli chiede dei Tonfa, i manganelli che hanno mandato in ospedale decine di ragazzi, Fournier sembra il marziano di Flaiano. Afferma che “il Tonfa è una cosa più seria, una cosa più complicata” e davanti alle domande del pubblico ministero si spiega meglio: “È uno sfollagente che non può essere utilizzato con la leggerezza con la quale si utilizza quello ordinario… può produrre grossi danni… i colpi in testa possono essere mortali con una buona percentuale di possibilità… è una follia perché si può ammazzare”. Nel film Diaz questo passaggio non c’è, perché le immagini descrivono quella pazzia me

UN PENTITO DI MAFIA: “LE STRAGI DEL ’93 CHIESTE DA B. E DA DELL’UTRI lo raccontò nel 2000 Giuseppe Monticciolo al pm Chelazzi”

Fatto Quotidiano 28/02/2012 Giuseppe Lo Bianco
Le stragi del ’93? A chiederle a Cosa Nostra furono “Sil vio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, attraverso il fat-
tore di Arcore, Vittorio Mangano”. L’ultima rivelazione sulle tentazioni stragiste e sul ruolo svolto dall’ex premier nella stagione di sangue dell’attacco allo Stato salta fuori da un verbale del 2000, tenuto segreto per dodici anni, redatto da Giuseppe Monticciolo, il picciotto che Brusca utilizzò per strangolare il piccolo Giuseppe Di Matteo, assassinato a soli 12 anni perché figlio di un pentito. Nel pieno dell’offensiva corleonese contro lo Stato, dopo l’arresto di Totò Riina, Mangano avrebbe indicato a Bagarella “gli attentati che voleva fatti Berlusconi e Dell’Utr i”, sottolineando l’assoluta ignoranza dei boss sugli obiettivi da distruggere: “Non sapevo nemmeno che fossero gli Uffizi, si figuri Bagarella”. L’ordine, per Monticciolo, sarebbe partito da Milano, dal cuore dell’i m p e ro Fininvest, dopo che le cosche avevano tentato di uccidere un uomo simbolo della tv berlusconiana: Maurizio Costanzo. Dopo l’attentato a Costanzo, racconta Monticciolo a Chelazzi, presenti l’allora procuratore di Palermo Pietro Grasso e il pm Vittorio Teresi, “Dell’Utri – dice che ha mandato a dire (sempre detto, va bene, da Bagarella) che si dovevano fare… Dice: Allora, visto che sapete fare… visto che sapete arrivare a Costanzo, perché Costanzo non ce lo ha indicato nessuno per fargli l’attentato, dice allora sapete arrivare anche a fare qualcos’altro, per esempio la strage degli Uffizi e via dicendo’. E da lì Bagarella ordinò. Perché poi ne parlò direttamente davanti a me con Giovanni Brusca”.
LA RIVELAZIONE è sconvolgente, nel verbale Chelazzi è puntiglioso, vuole ricostruire tutti i dettagli e domanda se vennero richiesti “un numero definito di attentati”, ricordando quelli di Roma, Firenze e Milano: “Sono stati richiesti – r isponde Monticciolo – di volta in volta. Poi la discussione come andavano e come non andavano lo sapevano solo Brusca e Bagarella”. Interrogato più volte sull’ar gomento, Brusca ha sempre smentito, ammettendo solo che Berlusconi fu avvertito dalla mafia che “la sinistra sapeva” della trattativa. Ma rifiutò di sottoporsi a un confronto con Monticciolo, che aveva già alluso al coinvolgimento di Berlusconi nella stagione
stragista. Perché i boss accettarono di eseguire le stragi? La posta in gioco, spiega Monticciolo, è il 41-bis. “A Bagarella – racconta il pentito – premeva che dovevano togliere cioè, le promesse che facevano loro erano quelle di toglierlo e di non esserci più restrizioni nei carceri. Loro, come politici, dicevano che salendo al potere levavano il 41-bis e levavano i restringimenti nelle carceri”. Le cose andarono diversamente: il 41-bis, tra ammorbidimenti e attenuazioni, è ancora una leva dell’azione antimafia, e i boss non nascosero la delusione: “Berlu sconi prima vuole fatte le cose, però lui non viene mai agli impegni che prende”, aggiunge Monticciolo, riportando le parole del boss Bagarella, e spiegando che
il cognato di Riina “parlava degli impegni che le stragi venivano fatte e poi lui non si impegnava, nel ’93”. Una delusione che non impedì ai corleonesi di sostenere politicamente Berlusconi: Monticciolo ricorda che nel 1994 Bagarella disse “di cercare i voti per Forza Italia” e che Brusca lo incaricò di “riferirlo agli altri capi mandamento”.
N O N O S TA N T E le inadempienze di Berlusconi, Bagarella non avrebbe reagito “p e rch é Mangano – scrivono i pm nel verbale riassuntivo dell’inter rogatorio di Monticciolo – in qualche modo lo tranquillizzò facendogli osservare che bisognava aver pazienza e che i risultati sarebbero ar rivati”. E Monticciolo conclude che fino a quel momento non ha parlato di politica con i magistrati per “p a u ra ”: “I politici, manovrati sempre dalla mafia, vogliono che io non parli sulle questioni politiche”. I verbali sono stati acquisiti anche dai pm di Palermo e sono oggetto di valutazione nell’ambito dell’i n ch i e s t a sulla trattativa mafia-Stato, nella quale ieri è stato interrogato l’ex ministro Calogero Mannino, indagato per violenza o minaccia al corpo politico dello Stato. Mannino si è avvalso della fla facoltà di non rispondere

E’ qui la festa? (Marco Travaglio).

E' qui la festa? (Marco Travaglio)..

“SUBITO 5 LEGGI CONTRO LE MAZZETTE”(cosa aspettano governo e la Bce a combattere la corruzione Marco Travaglio)


Rdazione
Dopo la denuncia della Corte dei Conti dell’altissimo livello di corruzzione due pocuratori come Davigo e greco che sarebbe ora di muoversi, nonostante le richieste dell’U.E non è ancora fatto nulla
Intervista al procuratore agiunto Francesco Greco
Il Fatto Quotidiano 16/02/2012 di Marco Travaglio
Vent’anni dopo Mani Pulite, abbiamo un governo che dice di dover e voler rispettare gli obblighi con l’Europa e con la comunità internazionale. Bene, allora non si capisce
perché non si sia ancora intervenuti per adeguare la nostra legislazione alle richieste degli organismi europei e agli impegni che l’Italia stessa ha preso con la comunità internazionale. Soprattutto non si capisce perché non si voglia intervenire con leggi che contrastino seriamente le due principali cause del declino del Paese e della diseguaglianza sociale: la corruzione e l’evasione fiscale. Cioè la criminalità economica che, se continua a essere tollerata e dunque incoraggiata, costringe i poveri e gli onesti a seguitare a mantenere i ricchi e i disonesti”. Francesco Greco, procuratore aggiunto, è l’unico pm superstite del pool storico di Mani Pulite alla Procura di Milano. E, in questa intervista al Fa t t o , lancia la sfida ai tecnici e ai politici che li sostengono. Dottor Greco, non le bastano i blitz anti-evasione dell’Agenzia delle Entrate? No: quei blitz, pure sacrosanti, rischiano di essere fumo negli occhi, se non sono accompagnati da una seria riforma delle leggi di contrasto all’evasione fiscale. E anche da una cultura di ampio respiro, che consenta di collegare l’evasione alla corruzione: l’ultimo report dell’Ocse richiama pesantemente le Agenzie delle Entrate degli Stati membri a cercare negli accertamenti non solo l’evasione, ma anche le tangenti. L’Ocse ha addirittura compilato un “Manuale di sensibilizzazione alla corruzione a uso dei verificatori”. Il ministro Paola Severino ha anche istituito
una commissione per studiare una legge anticorruzione . Queste commissioni ministeriali sono sempre più divertenti. Mi viene in mente quella istituita nel 1995 dall’allora presidente della Camera Violante: produsse un’ottima relazione del professor
Sabino Cassese che, temo, abbiamo letto in due o tre, e giace in qualche cassetto del Parlamento, irrintracciabile. Il fatto è che tutti sanno benissimo quel che bisogna fare contro la corruzione e l’evasione. Basterebbe volerlo… Ecco, che cosa dovrebbe fare il governo
per essere credibile su questi fronti? Le convenzioni internazionali, regolarmente sottoscritte dallo Stato italiano, alcune mai ratificate dal Parlamento italiano, da quella di Merida sulla criminalità organizzata del 2003 a quella di Strasburgo del 1999 sulla corruzione, ma anche le racco-
mandazioni dell’Ocse, impegnano gli Stati a intervenire su cinque punti fondamentali: trasparenza dei flussi contabili, trasparenza dei flussi finanziari, sistema della prescrizione, “enforce ment” (efficacia d’intervento degli organi preposti alla repressione), corruzione privata nazionale e internazionale. Cominciamo dalla trasparenza dei flussi contabili. Che cosa bisogna fare? Se il denaro per operazioni illecite si sposta clandestinamente dalla società A alla società B come un fiume carsico, per scoprirlo bisogna intervenire quando affiora sopra il pelo dell’acqua: cioè al momento dell’uscita da A o da B. Per farlo uscire illegalmente vengono falsificati i bilanci e costruite operazioni fittizie per giustificare quelle uscite (tipo i pagamenti di fatture gonfiate o per operazioni inesistenti). Ecco la necessità di punire le opacità dei flussi contabili e di quelli finanziari. E
noi siamo sguarniti su entrambi i fronti. Su quello contabile, la legge Berlusconi del 2002 ha, di fatto, depenalizzato il falso in bilancio quantitativo, mentre quello qualitativo (che non altera i grandi numeri economici della società, ma nasconde tangenti che, se scoperte, distruggerebbero la società stessa) l’ha depenalizzato anche de jure. Bisogna tornare almeno alla legge pre-2002, che punisca entrambi i falsi in bilancio, aumentando però le pene e i termini di prescrizione, anche per consentire intercettazioni e custodia cautelare. Secondo: trasparenza dei flussi finanziari. Anzitutto, occorre riformare il diritto penale tributario. Le soglie quantitative di evasione non penalmente rilevante sono assurdamente alte: decine di migliaia di euro sfuggono al controllo penale. E anche le norme che puniscono l’evasione e la frode sono complicatissime, con l’aggravante di pene troppo basse, che fanno scattare la prescrizione dopo appena 7 anni e mezzo: siccome l’Agenzia delle Entrate ci segnala evasioni e frodi dopo 4-5 anni da quando sono avvenute, a noi restano 2-3 anni per fare indagini e tre gradi di giudizio. Con prescrizione assicurata. Poi ci sono altre assurdità, come le pene previste per l’evasore totale, che sono addirittura inferiori rispetto a chi evade un po’ con le fatture false. Insomma, un sistema che sembra fatto apposta per salvare gli evasori. E forse lo è. L’altro sistema per nascondere i flussi finanziari illeciti è il riciclaggio. Perché in Italia si fanno così pochi processi per questo reato? Perché l’Italia – caso unico al mondo assieme alla Cina e a qualche paese africano – non punisce l’autoriciclaggio: cioè il reato di chi accumula denaro illegalmente con tangenti, evasioni o altri traffici illeciti e poi lo ripulisce da sé. Tant’è che oggi, nei tribunali italiani, il reato di riciclaggio serve solo a punire i taroccatori di auto rubate, cambiando la targa o il numero di matricola. Sui flussi finanziari della grande criminalità organizzata ed economica, non serve a nulla: non si riesce a fare un solo processo. (segue a pag. 13)

Mani impunite(Marco Travaglio)


Il Fatto quotidiano 16/02/2012 Autore: Marco Travaglio
Anche le massime istituzioni repubblicane han voluto celebrare degnamente il ventennale di Mani Pulite. Il Parlamento ha salvato un’a l t ra volta dall’arresto il senatore Tedesco, mentre l’ex
premier B. collezionava una richiesta di condanna a 5 anni di carcere per corruzione giudiziaria e un altro senatore, il preclaro De Gregorio, veniva indagato per aver fatto sparire 23 milioni di fondi pubblici all’editoria. Una cosetta. Superano ormai il centinaio i parlamentari indagati o imputati o pregiudicati (24), ma c’è ancora un anno di legislatura per darsi da fare e battere il record del ’93. Intanto la corruzione continua a mangiarsi 60-70 miliardi l’anno e l’evasione altri 120-150. Ed è da questi presupposti che il capo dello Stato ha aulicamente tratto le conseguenze dinanzi al Csm: “Può senz’altro percepirsi un positivo mutamento dell’atmosfera per quel che riguarda reali disponibilità di confronto costruttivo su problemi più urgenti in materia di politica della giustizia”. Finalmente c’è “piena consonanza nella individuazione delle ragioni della crisi, delle priorità da affrontare e degli immediati rimedi riformatori”. Un ingenuo o uno straniero di passaggio potrebbe pensare che il Presidente parli di legge anticorruzione, riforma dei reati fiscali, ripristino del falso in bilancio, ratifica delle convenzioni internazionali sul traffico d’influenze, l’autor iciclaggio, la corruzione privata, la prescrizione. In effetti tre parole tre le dice (“seri adeguamenti normativi”). Ma il confronto costruttivo serve a ben altri e più nobili scopi: mandare a casa migliaia di detenuti o stiparli nelle camere di sicurezza delle questure accanto a chi li ha arrestati (la nuova frontiera del garantismo). E soprattutto tappare la bocca alle toghe e privarle dei diritti civili. Il mondo si domanda come sia possibile che in Italia siano candidabili i condannati. Ma l’uomo del Colle trova disdicevole che si candidino i magistrati. Il fatto che un ladro entri o resti in Parlamento, anche se ha confessato di aver fregato 13 milioni al suo partito, non pare turbarlo. Ma “le troppe esternazioni esorbitanti i criteri di misura” e “l’assunzione inopportuna di incarichi politici” da parte di magistrati, queste sì “disorientano i cittadini”. In effetti siamo talmente abituati ai ladri che, quando vediamo una guardia in politica, siamo subito colti da vertigini. Quando poi un magistrato parla, “innesca periodicamente spirali polemiche e acuiscono molteplici tensioni”, e così quando “inserisce nei provvedimenti giudiziari riferimenti non necessari ai fini della motivazione e che spesso coinvolgono terzi e s t ra n e i ”. Se, per dire, uno legge in un’ordinanza le telefonate fra un ladro o un mafioso e un politico, chissà cosa va a pensare: tipo che anche il politico sia un poco di buono e che il Colle dovrebbe monitare un po’ anche contro di lui. Ottimo anche l’elogio del neoprocuratore di Roma Pignatone, che già acquisì meriti a Palermo emarginando alcuni dei migliori pm antimafia. Elogi anche al giudice Casalbore e al pm Guariniello dopo la sentenza Eternit? Non pare il caso. Un monito contro la porcata Pini sulla responsabilità civile dei giudici? Meglio di no. Invece bisogna punire più severamente i pm che si permettono di parlare in dissenso dal pensiero unico: oggi “sfuggono alla sanzionabilità disciplinare per la legge del 2006”, urge “rifor ma” per imbavagliarli meglio. E, se qualcuno non condivide le “riforme condivise”, rendendole un po’ meno condivise perché non le condivide, va “arg inato”: i partiti che garbano al Colle “rea giscano con la massima fermezza alle resistenze alle riforme della giustizia”, specie da parte di quegli “intraprendenti parlamentari che sventolano vessilli di santuari intoccabili”. Ma sì, dai che l’abbiamo capito chi è l’intraprendente parlamentare: quello che vent’anni fa scoprì Tangentopoli. L’avessero arginato all’epoca, come diceva l’amico Bottino Craxi, signora mia…

Giustizia ok, partiti ko (Marco Travaglio).

Giustizia ok, partiti ko (Marco Travaglio)..