Archivio mensile:febbraio 2014

Manager di Stato, buonuscite milionarie se non venissero riconfermati da Renzi

Paolo Scaroni (Eni), Fulvio Conti (Enel) e Flavio Cattaneo (Terna), come riporta il settimanale Espresso, incasserebbero rispettivamente: 8,3 milioni di euro, 6,4 e 2,4 milioni. In tutto sono 350 i dirigenti pubblici da nominare
Fonte di Redazione Il Fatto Quotidiano | 27 febbraio 2014 attualità
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Con l’avvento del nuovo governo tira aria di cambiamento ai vertici delle aziende controllate dallo Stato. Sono 350 i manager pubblici che dovranno essere nominati dal neo premier Matteo Renzi. Ma per qualcuno dei top manager la “mancata conferma” potrebbe essere una manna dal cielo. Come riporta il settimanale l’Espresso, Paolo Scaroni (Eni), Fulvio Conti (Enel) e Flavio Cattaneo (Terna), se non venissero riconfermati, incasserebbero buonuscite milionarie. Nelle tasche di Scaroni finirebbero 8,3 milioni di euro, a Conti 6,4 e 2,4 a Cattaneo.

Le “Relazioni sulla remunerazione” pubblicate sui siti internet delle tre società quotate in Borsa riportano che una mancata conferma dei tre manager per un ulteriore triennio consentirà di poter esigere dalle rispettive aziende bonus dorati. Nel caso di Scaroni e di Conti una parte di queste buonuscite è variabile e dipenderà dai risultati del 2013.

Queste cifre da capogiro si spiegano perché, oltre all’incarico di amministratore delegato, i tre manager ricoprono anche quello di direttore generale. Ma, come rivela l’articolo ci sono anche clausole poco chiare: come l’impegno di Conti a rinunciare a una parte del suo paracadute d’oro – l’indennità di “non concorrenza” – nel caso il governo gli offrisse “un incarico equivalente o di maggior significatività professionale”. Nell’ultimo anno di cui sono disponibili i dati, il 2012, Scaroni ha avuto una remunerazione di 6,3 milioni, Conti di 4 milioni e Cattaneo di 2,3 milioni.

IN PARADISO Maxi – evasione gli Usa a caccia in Svizzera

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BROKER IN AMERICA PER SPIEGARE COME PORTARE VIA 12 MILIARDI
Fatto Quotidiano del 27/02/2014 di Alessio Schiesari attualità
Credit Suisse ha aiutato 22 mila correntisti statunitensi a evadere le tasse su 12 miliardi di dollari. Sono cifre da capogiro quelle pubblicate dalla commissione d’inchiesta permanente del senato Usa che sta indagando su quattordici banche elvetiche. Tra queste la più grande è Credit Suisse che, per almeno cinque anni, avrebbe inviato i propri commerciali oltreoceano per convincere i contribuenti americani ad aprire conti secretati nel paradiso alpino. Gli emissari delle banche, che ingannava- no le dogane dichiaran- do che il loro era un viaggio turistico e non d’affari, fornivano ai ricchi correntisti statunitensi tutte le informazioni necessarie per eludere i controlli. Ad esempio, come inviare il denaro in tranche inferiori ai 10 mila dollari per evitare le dichiarazioni fiscali, o indicando dove ottenere carte prepagate anonime. Secondo i senatori Usa, la filiale di Credit Suisse all’aeroporto di Zurigo è dedicata proprio ai clienti stranieri che usavano l‘istituto di credito per eludere il fisco. Già venerdì scorso, la banca elvetica ha accettato di pagare a Sec, il corrispettivo usa della Consob, una multa di 196 milioni di dollari. Secondo la stampa Usa si tratterebbe però solo di un magro antipasto del menu preparato dal dipartimento di Giustizia che già nel 2009 ha comminato a Ubs, il principale istituto di credito elvetico, un’ammenda di 780 milioni di dollari. Nella relazione di ieri la commissione del senato critica anche la condotta del dipartimento di giustizia che, invece di utilizzare tutti gli strumenti a disposizione per perseguire l’evasione, si sarebbe limitato a inol- trare delle rogatorie a Berna. Una strategia inefficiente (la legislazione svizzera tutela il segreto bancario) che avrebbe permesso di identificare solo 238 potenziali evasori sui 22 mila totali. Il senatore John McCain, ex candidato presidente per il Gop e membro della commissione, ha criticato “l’inefficienza del- la giustizia che ha permesso al problema dei conti offshore di trascinarsi nel tempo”. Da quando l’amministrazione Obama ha deciso di inasprire i controlli sui paradisi fiscali sono stati concessi due condoni: uno dedicato ai contribuenti infedeli cui hanno ader- tito in 44 mila e uno riservata un centinaio di banche svizzere (in cui, a fronte del paga- mento di una penale veniva offerta l’immu- nità penale).

Sparlacchi (Marco Travaglio).

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Arlacchi disse ai pm: “Mori e Contrada trattavano con i boss”
NEI VERBALI DEL 2009 L’EURODEPUTATO CONFERMAVA LE TESI DEI PM DI PALERMO. ORA (SU PANORAMA) HA CAMBIATO IDEA.

Da Il Fatto Quotidiano del 28/02/2014. Marco Travaglio attualità
È ora di finirla di “costruire carriere immeritate” processando la trattativa Stato-mafia, che è solo un’“allucinazione” senza “una sola prova seria” e “si concluderà con il totale flop dell’inchiesta di Antonio Ingroia & soci”. Parola di Pino Arlacchi, sociologo ed europarlamentare eletto con l’Idv poi passato al Pd. In un’intervista a Panorama, colui che viene definito “tra i massimi esperti internazionali di criminalità organizzata” propone di “rottamare una certa idea della mafia”, ma anche chi “ha voluto costruirsi una carriera”. E non parla di se stesso, ma dei pm che indagano sulla trattativa, “ammalati di protagonismo e venditori di paura”. Tipo Nino Di Matteo, che pur di fare carriera s’è addirittura fatto condannare a morte da Totò Riina. Ma questa condanna a morte non vale, perché ormai “Riina è un capomafia di 84 anni, in galera da 21, solo e abbandonato” e “la credibilità delle sue farneticazioni è zero”. Nulla a che vedere con il Riina che, dalla gabbia di un processo nel ’94, attaccò Caselli, Violante e Arlacchi: allora la sua credibilità era mille, tant’è che da quel momento – ricorda Panorama – Arlacchi “ha vissuto per 13 anni sotto scorta”. Strano, perché a sentire Arlacchi “la Cosa Nostra di Riina è stata fatta a pezzi dal maxiprocesso del 1987”, ergo non si comprende come abbia potuto mettere a ferro e a fuoco lo Stato fra il 1992 e il ’94, ma soprattutto come Riina potesse minacciare sul serio Arlacchi nel 1994, al punto da costringerlo – obtorto collo, si capisce – a vivere scortato.

Dopo la cura. In ogni caso Arlacchi ha il pregio delle idee chiare: la trattativa è un’“allucinazione” perché “basata su un’ipotesi grottesca”: quella di una connection fra Stato e Cosa Nostra ai tempi delle stragi del 1992-’94 “attraverso il Ros e i servizi segreti che negoziano un armistizio”. Una panzana sfornita di qualunque “prova seria a sostegno”, a parte “le vanterie di un killer, Gaspare Spatuzza” (così inaffidabile da aver smontato una sentenza definitiva su via D’Amelio) e “le bufale di un calunniatore patentato come Massimo Ciancimino” (che però, purtroppo, conservava una cinquantina di documenti del padre, “papello” compreso, poi autenticati dalla Scientifica). Ci sarebbero pure le deposizioni dei vertici del Ros, dall’ex colonnello Mario Mori all’ex capitano Giuseppe De Donno, che parlano esplicitamente di “trattativa” con Vito Ciancimino, trait d’union verso Riina, ma lasciamo andare. Arlacchi non può tollerare “il fango gettato su persone perbene come Mancino e Conso, accusati senza il più piccolo indizio o prova di aver tradito il loro mandato” (in realtà sono imputati di falsa testimonianza), mentre furono “coraggiosi e inflessibili contro Cosa Nostra” (il secondo revocò il 41-bis a 334 mafiosi detenuti e il primo non mosse un dito, ma fa niente). Discorso chiuso, non ne parliamo più.

Però c’è un però: un verbale di otto pagine fitte fitte, firmato poco più di quattro anni fa da tale Arlacchi Giuseppe detto Pino, sentito l’11 settembre 2009 come testimone dai pm di Caltanissetta Amedeo Bertone, Domenico Gozzo, Nicolò Marino e Stefano Luciani, nell’inchiesta Borsellino-quater. Lì l’Arlacchi mostra non solo di credere all’allucinazione della trattativa, anzi delle trattative (“addirittura tre o quattro”) fra Stato e mafia, ma anche di saperla lunga, molto lunga in materia, nella sua veste di “consulente dell’Alto commissariato antimafia” dal 1990 al ’94 “in rapporti diretti con il ministero dell’Interno per redigere il progetto della Dia”. Prima della cura. Arlacchi racconta del famoso incontro del 1° luglio 1992 fra Paolo Borsellino e il neoministro dell’Interno Mancino: “Borsellino venne a trovarmi… nel tardo pomeriggio e mi disse di essere stato in precedenza a trovare l’on. Mancino con il quale aveva avuto un breve colloquio”, a cui “aveva presenziato il prefetto Parisi (Vincenzo, capo della Polizia, ndr)”.

Ora, Mancino ha sempre negato di aver parlato quel giorno con Borsellino, ammettendo al massimo una fugace “stretta di mano” e “senza riconoscerlo”. Domandano i pm: è vero quel che dice l’allora ministro della Giustizia Claudio Martelli, e cioè che nel passaggio dal governo Andreotti al governo Amato il ministro dell’Interno Scotti e lo stesso Martelli – autori del durissimo decreto antimafia sul 41-bis dopo Capaci – dovevano saltare (come avvenne con Scotti, sostituito con Mancino) per “allentare la morsa” antimafia in nome di un “tacito accordo col nemico”? Arlacchi conferma: “Quel che ha dichiarato Martelli corrisponde al clima politico del tempo… Discussi della situazione di ‘opacità’ con Scotti, il quale soleva ripetere che ‘gliel’avrebbero fatta pagare cara’”.

Tre o quattro trattative. I pm leggono ad Arlacchi una sua intervista a La Stampa, in cui rivela: “Trattative fra Stato e mafia ce ne sono sempre state. In quegli anni cruciali ce n’erano in piedi più d’una, addirittura tre o quattro, intrattenute da centri marginali dello Stato… Marginali non vuol dire ininfluenti: era gente che stava nei servizi, nei Ros e negli apparati investigativi d’eccellenza”. Ma guarda un po’: anche dal Ros. Proprio come affermano i pm carrieristi della Trattativa. “Perché trattavano?”, si domanda Arlacchi. E si risponde: “Un po’ per cercare pentiti, molto per arginare i successi della Polizia”, guidata da Parisi e Gianni De Gennaro. Ma tu pensa: Ros, servizi e apparati volevano arginare i successi della Polizia contro la mafia. E non è un’allucinazione dei pm acchiappanuvole: è una convinzione di Arlacchi. Tant’è che – spiega il luminare ai pm –“ sul luogo della strage di via D’Amelio, almeno così credo, venne trovato un biglietto con un numero di telefono di un dirigente del Sisde” (verissimo, era di Lorenzo Narracci, fedelissimo del numero 3 del Sisde Bruno Contrada, ma era a Capaci, non in via D’Amelio). La cosa non meravigliò affatto Arlacchi: “Era mia convinzione che Cosa Nostra, nell’eseguire le stragi di Capaci e via D’Amelio, avesse agito in sinergia con ambienti deviati delle istituzioni, soprattutto del Sisde” che avevano “cavalcato la reazione autonoma di Cosa Nostra, pilotandola per asservirla allo scopo di riacquistare la centralità che avevano avuto nel passato” dopo “la perdita di potere della parte politica che li aveva sempre garantiti”. Una tesi “condivisa anche dai dottori Falcone e Borsellino”. Perbacco.

Mori&Contrada. “Faccio riferimento – spiega Arlacchi – soprattutto al gruppo Sisde che aveva come punto di riferimento Contrada e anche qualche gruppo appartenente all’Arma dei Carabinieri, che aveva nel col. Mori il punto di riferimento. Mori e Contrada mi risulta che fossero ambedue in forte contrapposizione con il dottor De Gennaro”. E non basta: “Io non condividevo il metodo col quale operava il col. Mori in quel periodo, contrassegnato da un ricorso a confidenti e da un’azione che definirei poco trasparente”. Ma c’era pure qualcuno peggio di Mori: “Ritenevamo Contrada davvero pericoloso e capace anche di compiere omicidi”. Quindi c’erano trattative, gestite per lo Stato da Mori e i Contrada, l’uno “poco trasparente” e l’altro un potenziale ”assassino”. Mica male, come allucinazione.

Andreotti capomafia. Già “nel 1985 – rivela Arlacchi – il dottor Falcone mi chiese se sapessi chi fosse ‘il vero capo della mafia’, facendomi il nome del presidente Andreotti e precisandomi che l’aveva saputo da Tommaso Buscetta”: anche lui “era in possesso di elementi certi”, ma “non avrebbe proceduto in questa direzione finché i tempi non fossero maturi”. Dopodiché“un ex agente Cia a Roma tra il 1978 e il 1982, Phil Girardi, mi disse che loro spiavano tutti gli uomini politici italiani, compreso Andreotti, e sapevano, per via delle microspie che avevano installato in quel periodo, dei rapporti fra Andreotti e i capi mafia. Girardi mi ha detto di essere disponibile a confermare ufficialmente quanto mi ha riferito”. Nel 1989, poi, ci fu il fallito attentato all’Addaura, anch’esso in “collegamento con il gruppo andreottiano”: “Falcone mi disse scherzando che era stato contattato per primo dal presidente Andreotti e, cambiando espressione e diventando serio, mi disse pure che gli era corso un brivido lungo la schiena”.

Le stragi per trattare. E la trattativa del 1992-‘93? “Dopo le stragi del 1993 si consolidò presso i vertici della Dia l’idea che le stragi avevano una valenza politica precisa, cioè erano finalizzate a costringere lo Stato a venire a patti e instaurare una trattativa”. Quindi la mafia fa le stragi per trattare con lo Stato e lo Stato tratta con la mafia. Attraverso chi? “Sul punto formulammo insieme a De Gennaro delle ipotesi, ritenendo che il gruppo andreottiano, tramite il gruppo Contrada, fosse uno dei terminali della trattativa… Quando faccio riferimento per le trattative allora in corso al Ros intendo riferirmi al col. Mori; sospettavamo infatti che vi fosse in atto un’azione di depotenziamento delle indagini della Procura di Palermo, anche tramitecontatticonappartenenti a Cosa Nostra che convincevano l’associazione della possibilità di uscire in qualche modo indenne dalla fase delle indagini compiute dal pool di Palermo. Parisi era certamente a conoscenza di questa situazione, ma il suo atteggiamento è sempre stato quello di cercare una mediazione con questi ambienti, intendo riferirmi al gruppo Contrada, perché era a conoscenza di quanto potessero essere pericolosi e cercava pertantodicontenernel’azione”.Ma quante cose sa questo Arlacchi. Tutte collimanti con le allucinazioni dei pm di Palermo.

C’è pure Dell’Utri. All’appello degli imputati eccellenti per la Trattativa manca soltanto Marcello Dell’Utri. Anzi no, nel verbale nisseno di Arlacchi c’è anche lui: “In tale contesto, ricordo che il dott. De Gennaro già all’epoca mi parlava di contatti ‘ambigui’ tra appartenenti a Cosa Nostra e Marcello Dell’Utri, che fungeva da anello di congiunzione tra la mafia e il mondo dell’economia e della politica”. Infatti stava creando Forza Italia, che sarebbe uscita allo scoperto a fine ’93. Proprio come raccontano diversi pentiti nel processo Trattativa, ma anche quel peracottaro calunniatore di Massimo Ciancimino sulla scorta dei colloqui col padre Vito. E così l’Arlacchi prima della cura diventa il miglior alleato dei pm visionari da rottamare.

Gli scheletri al Ministero. “Le stragi del ’93 – conclude Arlacchi – furono il proseguimento coerente del disegno. E proprio le cosiddette trattative, i contatti anomali aprirono la strada all’eversione mafiosa, ancora una volta protetta da false analisi e depistaggi come quello – sostenuto da Sismi e Sisde– che, nell’immediatezza degli attentati di Roma, Firenze e Milano, invitavano a indagare sulla criminalità colombiana, balcanica o sul terrorismo internazionale. Solo la Dia indicò la pista inconfondibile del terrorismo mafioso”. Lo stesso “Scotti fu oggetto di ripetuti depistaggi e attacchi da parte dei servizi, ne era convinto anche Parisi, con cui parlai del fatto”. La miglior prova che si voleva eliminarlo dal Vi-minale: la sua linea dura era incompatibile con la trattativa, di cui infatti fu tenuto all’oscuro. Ma di quell’immondo negoziato “ci dev’essere certamente traccia negli archivi del ministero dell’Interno, delle forze dell’ordine e dei corpi a cui appartenevano i protagonisti di queste trattative. Probabilmente la terminologia non sarà proprio questa, non si parlerà di trattativa ma di contatti, ma una traccia deve esservi. Anche perché queste attività comportano spesso l’uso di fondi riservati. Ciò significa che, dunque, il ministro dell’Interno avrebbe dovuto sapere di queste ‘trattative’, pur se diversamente chiamate. È possibile che sia anche il ministro della Difesa a conoscere i fatti”. E chi era il ministro dell’Interno, dopo Scotti? Nicola Mancino. Ci sono tutti i presupposti perché Arlacchi diventi il testimone-chiave della pubblica accusa nel processo sulla Trattativa. Sempreché, negli ultimi quattro anni, non abbia perduto la memoria. Non sarebbe il primo, né l’ultimo.

Fondi stanziati (male) e mai spesi

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RENZI HA PROMESSO DI CAMBIARE VERSO: IL 40% DEGLI EDIFICI HA BISOGNO DI INTERVENTI
Fatto Quotidiano del 26/02/2014 Salvatore. Cannavò attualità
Quello sulla scuola è stato uno dei passaggi del discorso alle Camere a cui Renzi ha dedicato più tempo. Com’è la situazione oggi? I fondi per l’edilizia scolastica sono stati sempre stanziati e mai spesi. Dal 2004 in poi, l’Associazione dei costruttori ha calcolato in 2,4 miliardi le risorse individuate dai vari governi che si sono succeduti, ma solo la metà sembra essere andata a buon fine. Nel 2009, il governo Berlusconi stanziò, con delibera Cipe, la bellezza di un miliardo di cui, però, furono effettivamente mobilitati solo i 226 milioni assegnati all’Abruzzo del dopo-terremoto (e neanche tutti). La delibera Cipe del 2012, che ha rimediato a quella del 2010, inattuata, ha stanziato in due tranche 358 e 259 milioni. Ma solo 200 milioni sono stati spesi complessivamente. Nel 2012 è stato istituito il Fondo unico per l’edilizia scolastica ponendo in capo al ministero un apposito capitolo di bilancio in cui confluiscono tutte le risorse presenti nel bilancio dello Stato. Ad oggi,però, in quel bilancio ci sono solo gli stanziamenti previsti dal governo Letta: 150 milioni per il piano straordinario di manutenzione. A fronte di risorse scarse e gestite male, con competenze divise tra lo Stato (che ha i fondi), le Regioni (che programma- no) e Comuni e Province (che spendo- no), la situazione dell’edilizia scolastica resta, per usare le parole del rapporto Legambiente, “in uno stato di perenne emergenza”. “Oltre il 60% degli edifici scolastici sono stati costruiti prima del 1974 – scrive l’associazione ambienta- lista che stila ogni anno un apposito dossier – data dell’entrata in vigore della normativa antisismica. Il 37,6% delle scuole necessita di interventi di manu- tenzione urgente, il 40% sono prive del certificato di agibilità, il 38,4% si trova in aree a rischio sismico e il 60% non ha il certificato di prevenzione incendi”. Se- condo l’Ance servirebbero 50 miliardi, ma probabilmente i costruttori sparano alto.Mila Spicola,insegnante e componente la direzione del Pd, stima in 8-10 miliardi le risorse mobilitabili utilizzando i fondi europei. Il Movimento 5 Stelle sta invece lavorando a una proposta di legge “che preveda un’anagrafe scolastica completa ed efficiente”, dice Silvia Chimienti, deputata, che avverte: “Gli enti locali devono ancora ricevere 4 miliardi. Faremo di tutto affinché il nuovo governo passi dalle parole ai fatti”.

Lavoro, Istat: “8,5 milioni di dipendenti in attesa di rinnovo contrattuale”

D’altro canto le retribuzioni contrattuali orarie a gennaio segnano un balzo dello 0,6% su dicembre, mentre sono salite dell’1,4% su base annua. Si allarga ancora la forbice con l’inflazione, ferma nello stesso mese allo 0,7%. In pratica i salari crescono il doppio dei prezzi, ma il divario è quasi esclusivamente dovuto alla frenata dei listini
di Redazione Il Fatto Quotidiano | 26 febbraio 2014 attualità
Oltre 8 milioni di lavoratori in attesa che il loro contratto siano rinnovato ma retribuzioni in aumento. Si allarga la forbice dell’inflazione. Mostrano luci e ombre i dati sul lavoro diffusi dall’Istat.
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contratti in attesa di rinnovo a gennaio sono 51 e riguardano circa 8,5 milioni di dipendenti, corrispondenti al 66,2% del totale. L’istituto per le Statistiche spiega che si tratta della quota più alta dal gennaio del 2008. In pratica due dipendenti su tre stanno aspettando. Solo il pubblico impiego, d’altraparte, pesa per 2,9 milioni di lavoratori e 15 contratti.

Guardando nel dettaglio quanto accaduto a gennaio, alla fine del mese a fronte del recepimento di un accordo (gomma e materie plastiche) ne sono scaduti ben cinque (agricoltura operai, servizio smaltimento rifiuti privati, servizio smaltimento rifiuti municipalizzati, commercio e Rai). Quel che ha fatto balzare il numero dei dipendenti in attesa si rinnovo, spiega l’Istat, è il contratto del commercio, che include ad esempio i commessi e tocca circa due milioni di dipendenti. Comunque a febbraio già sono state ratificate delle ipotesi di accordo, che toccano quattro dei 51 contratti scaduti, per un totale di circa 500 mila dipendenti (tessili, pelli e cuoio, gas e acqua e turismo-strutture ricettive).

D’altro canto le retribuzioni contrattuali orarie a gennaio segnano un balzo dello 0,6% su dicembre, mentre sono salite dell’1,4% su base annua. Il rialzo mensile sia dovuto allo scatto di miglioramenti economici previsti per alcuni contratti in vigore. Aumenti che di solito partono proprio a inizio anno. Si allarga ancora la forbice con l’inflazione, ferma nello stesso mese allo 0,7%. In pratica i salari crescono il doppio dei prezzi, ma il divario è quasi esclusivamente dovuto alla frenata dei listini. Il rialzo mensile di gennaio è il più alto da due anni e in lieve recupero rispetto a dicembre è anche il dato annuo (a +1,4% da +1,3%). Sempre in termini tendenziali, l’Istat registra gli aumenti maggiori per i settori energia e petroli (4,6%), estrazione minerali (4,3%), telecomunicazioni (4,0%). Invece, l’Istituto continua a segnare variazioni nulle per tutti i comparti della pubblica amministrazione, che subiscono il blocco contrattuale.

Peccatori e verginelle (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 26/02/2014. Marco Travaglio attualità

Diciamo subito che espellere quattro senatori perché dissentono dalle scelte del loro movimento, dei loro leader e della maggioranza dei loro gruppi parlamentari, ma senza aver violato la cosiddetta “disciplina di partito” (o di non-partito), è una pratica assurda e antidemocratica, anche se è stata votata a maggioranza e ratificata dagli iscritti al blog di Grillo. E, se anche fosse vero che è prevista dal regolamento o dal non-statuto che dir si voglia, vorrebbe dire che è sbagliato e antidemocratico il regolamento, o il non-statuto che dir si voglia. Lo scrivemmo quando toccò alla senatrice Gambaro e lo ripetiamo a proposito dei senatori Battista, Bocchino, Campanella e Orellana. Se Grillo e Casaleggio hanno un po’ di sale in zucca, dovrebbero riunirsi con gli eletti e scrivere un altro non-statuto, più elastico e meno autolesionista, riaprendo le porte agli espulsi per “reato di opinione”. E, se gli eletti hanno un po’ di sale in zucca, dovrebbero chiamare i due leader a Roma e pretenderlo. È trascorso un anno da quando i 5Stelle entrarono in Parlamento con 163 rappresentanti, sicuramente troppi per la gracile struttura di un movimento così giovane e inesperto. Dodici mesi bastano e avanzano per far tesoro dell’esperienza maturata, così com’è avvenuto con la retromarcia sulla tv: all’inizio l’ordine di scuderia era di disertare i talk show perché qualcuno aveva deciso che “la tv è morta”, poi si comprese che era viva e vegeta e gli italiani cominciarono a conoscere, grazie alla tv, i Di Maio, Nuti, Di Battista, Sarti, Taverna, Fraccaro ecc.,e a toccare con mano quanto fosse ridicola la rappresentazione mediatica dei “grillini” come un branco di brubru incolti, xenofobi, decerebrati e telecomandati dalla Casaleggio Associati. Più volte, anzi, capitò di vederli metter sotto politici navigati. In 12 mesi di impegno parlamentare è nata e cresciuta una piccola classe dirigente – per ora soltanto di opposizione – che ha segnato molti punti al suo attivo, con scelte nobili e di grande effetto (la rinuncia ai soldi pubblici) e battaglie meritorie (le mozioni di sfiducia individuale contro Alfano, Cancellieri e De Girolamo, le campagne contro gli F-35 e il Porcellum, l’ostruzionismo sulla controriforma dell’art. 138 e sul decreto Bankitalia), anche contro il parere dei capi (l’abolizione del reato di clandestinità). Questa classe dirigente s’è guadagnata sul campo il diritto-dovere di una sempre maggior autonomia dai vertici, inevitabilmente lontani dalla quotidianità parlamentare: del resto era stato proprio Grillo a dirsi ansioso di tornare al suo vecchio mestiere e a incitare gli eletti a camminare con le proprie gambe. Tutto ciò premesso, il problema che i 5Stelle credono di risolvere brutalmente e autolesionisticamente a suon di espulsioni e calci in culo esiste non solo al loro interno, ma in tutti i partiti. Ora si sprecano paroloni, lezioni di democrazia da cattedre improbabili (tutti i partiti usano biecamente lo strumento delle espulsioni, anche se nessuno lo scrive), paralleli con il comunismo e il fascismo, citazioni dell’art. 67 della Costituzione (“Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”). Ma qui la questione è molto più banale e attuale: fino a che punto un partito, o un movimento, o uno o più suoi eletti possono disattendere gli impegni presi con i propri elettori? È vero che ogni parlamentare rappresenta tutta la Nazione, ma non è detto che debba per forza rappresentarla con la maglietta di un partito in cui non si riconosce. Se avessero avuto un pizzico di dignità, i senatori Battista, Bocchino, Campanella e Orellana, anziché sparare ogni giorno dalle tv e dai giornali contro il Movimento e gli elettori che li hanno paracadutati in Senato, in nome di una linea politica rispettabilissima ma incompatibile con quella che si erano impegnati a seguire, si sarebbero dimessi e iscritti al gruppo misto. Oppure, se ne avessero avuti i numeri (come pare avranno tra breve a Palazzo Madama), formare un gruppo autonomo. Non ti piace (più) il tuo partito? Ti fanno schifo i tuoi compagni? Scopri con notevole ritardo che il tuo leader è la reincarnazione di Hitler? Vattene, senza aspettare che ti caccino. Altrimenti non sei un Solgenitsin, o un Sacharov: sei soltanto uno Scilipoti. E, già che ci siamo, sarebbe il caso di risolvere una volta per tutte il dilemma: perché un berlusconiano o un grillino che vuole allearsi col Pd è un figliuol prodigo redento alla democrazia e mosso da nobili slanci da accogliere con il vitello grasso, mentre se uno fa il percorso inverso è un bieco voltagabbana? Paradossalmente, i 5Stelle scontano un sistema di selezione delle candidature molto più “democratico” di quelli praticati dai partiti: i vertici Pdl, Pd, Udc, Lega, Scelta civica, Sel ecc. conoscevano tutti i candidati che han portato in Parlamento grazie al Porcellum: perché se li sono scelti e nominati uno per uno (ne sa qualcosa Renzi, che si ritrova i gruppi parlamentari targati Bersani). Grillo e Casaleggio i loro eletti li hanno conosciuti per la gran parte dopo il voto, non prima. Per questo, nei partiti, non muove mai foglia che i leader non vogliano, nemmeno quando compiono scelte contro natura come le larghe intese con B. e poi con Alfano (due volte), nate all’insaputa anzi nel tradimento degli elettori. Ci sono, è vero, le riserve indiane tipo i civatiani: ma, giunti al dunque, si allineano sempre: altrimenti verrebbero espulsi anche loro, democraticamente si capisce. Da oggi, grazie all’ennesimo autogol dei 5Stelle, assisteremo alla solita sceneggiata dei partiti più antidemocratici d’Europa che danno lezioni di democrazia. Ma sarà soltanto un espediente ipocrita e propagandistico per rinviare la discussione su un problema che riguarda tutti: davvero la democrazia è chiamare ogni tanto i cittadini alle urne, incassarne i voti su un certo programma e usarli per fare esattamente l’opposto?

La carica dei ministri chiacchieroni

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IL PREMIER AVEVA DETTO “NIENTE DICHIARAZIONI PRIMA DELLA FIDUCIA”. MA VINCE LA VOGLIA DI VISIBILITÀ
Fatto Quotidiano del 25/03/2014 di Salvatore Cannavò attualità
M atteo Renzi era stato chiaro: nel primo Consiglio dei ministri subito dopo il giuramento aveva raccomandato alla propria squadra di non rilasciare dichiarazioni né interviste. “Niente, fino al voto di fiducia”. Cioè fino ad oggi o anche fino a domani, dopo il passaggio alla Ca- mera. L’auspicio di Renzi risale a sabato. Dome- nica era stato già rinnegato. Come ogni “tradi – mento” che si rispetti il primo a violare la con- segna del silenzio è stato il più fidato, quel Gra – ziano Delrio nominato sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, cioè il vero numero due del governo, seduto allegro e sorridente alle 14:30 davanti a Lucia Annunziata per un’inter- vista che su Rai3 ha rappresentato la prima sci- volata di “turboRenzi”. Renzi doveva presentare al Senato il proprio programma ma 24 ore prima è stato impiccato a questa frase: “Se una signora anziana ha messo da parte 100 mila euro in Bot non credo che se le togli 25 o 30 euro avrà pro- blemi di salute”. Neanche Fausto Bertinotti avrebbe mai agganciato a una “signora anziana” l’ipotesi di tassare le rendite finanziarie. Eppure fu proprio Rifondazione comunista a creare quel manifesto, “Anche i ricchi piangano”, che segnò l’inizio del declino del secondo governo Prodi. Renzi è così entrato nel tritacarne della politica degli annunci prova cosa significa smarcarsi dal proprio uomo di fiducia. SE CON DELRIO , però, resta il dubbio di un’uscita in tv concordata, per spiegare “l’incontinenza” degli altri ministri si può ricorrere solo al desi- derio compulsivo della visibilità. Non aveva nem- meno finito di brindare per il giuramento che Stefania Giannini , neoministra dell’Istruzione si confidava a Repu bblica per inviare il suo primo messaggi o al mondo della scuola: “Studierò. Come una secchiona”. Come tentativo empatico non c’è male, poi ci si ricorda che è il ministro a parlare e qualche inquietudine la si prova. Se ha bisogno di studiare vuol dire che non sa nulla oppure sa poco. Infatti, sui siti più frequentati dagli insegnanti, categoria che nonostante le bot- te subite continua a votare largamente per il Pd (che infatti ha lasciato il ministero a Scelta civica), rimbalza la frase sull’abolizione degli scatti di anzianità per i docenti, “frutto di un mancato co- raggio politico del passato”. Chi guadagna 1300 euro al mese non è molto d’accordo. Poi lei, da ex rettore universitario, sottolinea che “soltanto un cieco può negare la realtà: nell’università italiana da troppo tempo non c’è ricambio”. Che non farà il semplice spettatore ma si dedicherà anima e corpo al nuovo incarico di ministro della Cultura, Dario Franceschini non l’ha mandato a dire. Lo ha detto lui stesso, prima dome- nica, fresco di giuramento, in una intervista al Tg1 e poi ancora ieri facendosi intervistare da Radio1. Così dall’ex ministro dei Rapporti con il Parlamento, ex Sottosegretario alla Presidenza del Consiglio con Massimo D’Alema, ex segretario del Pd, abbiamo saputo che “uno dei motivi della stanchezza degli italiani nei confronti della politica, di qualsiasi colore è stato vedere molti annunci e pochi fatti corrispondenti a quegli annunci”. Compresi, quelli frettolosi, di France- schini. La neoministra dello Sviluppo economico, Federica Guidi , si è fatta precedere dalle polemiche sui suoi conflitti di interesse e sulle sue presunte cene con Silvio Berlusconi. Anche lei ha dovuto esternare al Cor – riere della Sera per rassicurare (chi?): “Non sono mai stata ad Arcore a cena” e Silvio Berlusconi “non mi ha offerto alcuna candidatura alle Europee”. Poi deve ammettere di aver incontrato di- verse volte Berlusconi, “tramite Alfano”, e di aver avuto la richiesta di entrare in lista con il Pdl. “Ma ho rifiutato anche perché “avevo un bambino piccolissimo”. Ora il bimbo è cresciuto è lei è mi- nistra. Senza problemi di incompatibilità perché “ha dato le dimissioni da tutti gli incarichi nella società”. Come diceva qualcuno prima di lei. Pare si chiamasse Silvio Berlusconi.

Trilateral, Secchi: “Dopo Prodi, Monti e Letta ora al governo abbiamo la Guidi”

da Il Fatto Quotidiano.it del 25 febbraio 2014 di Carlo Tecce | 25 febbraio 2014

Il presidente italiano della Commissione, gruppo di studio e di lobby, spiega: “Noi cerchiamo di mettere insieme i migliori e capita che questi siano chiamati anche a guidare l’Italia”. Adesso è il turno della titolare dello Sviluppo economico che “aveva finito l’esperienza nei giovani di Confindustria e poteva darci un contributo”
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“Vedrà, ci toccherà indire un concorso pubblico, i migliori frequentano le nostre riunioni e poi vanno al governo”, Carlo Secchi provoca, scherza con ironia accademica e la battuta interlocutoria di un uomo abituato a maneggiare il potere con discrezione. La Commissione trilaterale, gruppo di studio e di lobby, intuizione americana di David Rockefeller e di Henry Kissinger, brame di tecnocrazia e di finanza globale, è un serbatoio sempre carico per leggende (e complotti). E non manca mai l’appuntamento con l’esecutivo italiano. Il presidente italiano Secchi, ex rettore in Bocconi e consigliere d’amministrazione di sei società quotate in Borsa (Italcementi, Mediaset, Pirelli, capo di Mediolanum), non rivendica meriti: “Noi cerchiamo di mettere insieme i migliori e capita che i migliori siano chiamati a guidare anche l’Italia. A Washington accadeva spesso. Dopo Romano Prodi c’è stata un’interruzione, ma poi sono seguiti Mario Monti, illustre reggente europeo, e non dimentichiamo Enrico Letta e Marta Dassù. Come può capire vengono a pescare da noi, poi a volte ritornano. E i posti per gli italiani sono soltanto 18. Anche se il nostro Club s’è allargamento a Cina e India, oltre America, Europa e Giappone”.

Ora tocca a Federica Guidi, ministro per lo Sviluppo economico.
Auguri! Le ho mandato un messaggino, non potevo evitare i rituali complimenti. Federica ci ha accompagnato per un percorso di tre anni, ci ha fornito le proprie idee.

Come l’avete scelta?
Da noi le porte d’ingresso si spalancano per cooptazione. Federica aveva finito l’esperienza nei giovani di Confindustria e poteva darci un contributo. A Washington, ultima settimana di aprile, avremo un incontro importante.

Cosa prevede la Trilateral per il futuro?
Noi cerchiamo di agevolare il dialogo fra l’economica e la politica per far coincidere l’interesse fra istituzioni e denaro. E finalmente, lo dico con un po’ di scaramanzia, è pronto un documento che dobbiamo approvare proprio entro aprile. Ci abbiamo lavorato quasi due anni, l’aveva ispirato Monti.

Il vostro concetto di mondo.
Esatto. La nostra visione per un sistema che rispetta il rigore finanziario, il libero mercato, ma non resta immobile, che riduce le tasse, rivede il fisco e aiuta i cittadini. Anche Letta e Guidi hanno partecipato a questo progetto.

Durante la stagione di Monti, aprile 2012, disse: “Il modello italiano saranno le grandi coalizioni”. Ci ha azzeccato.
Non mi sembrava un pronostico complicato. E sono convinto che vedremo ancora governi di larghe intese, seppur politici, che vanno oltre i numeri di maggioranza che esprimono gli elettori.

Non è molto democratico.
Il pianeta ha bisogno di riforme e le riforme si fanno insieme.

Ha ascoltato il discorso di Matteo Renzi?
Buone intenzioni, adesso ci deve portare le prove.

Preferisce la patrimoniale o la tassa sui Bot?
Come chiamare l’imposta sugli immobili se non patrimoniale? Il denaro va fatto circolare, non strozzato: i titoli di Stato già sono un piccolo risparmio fatto per amore di patria. Le battute spettacolari, come quella di Graziano Delrio, vanno evitate.

Avverte il conflitto d’interessi di Federica Guidi?
Mica possiamo mandare al governo i monaci che fanno voti di povertà? Deve stare attenta, deve studiare, ma ce la può fare benissimo.

Lo sforamento del Patto di bilancio, il famigerato 3 per cento, è possibile?
Per chiedere una deroga e soprattutto per ottenere una risposta affermativa, l’Italia deve sistemare i conti e preparare un piano di tagli, altrimenti è pura demagogia. L’Europa non potrebbe mai accettare. Ora i ministri devono tacere e lavorare. Chi ha un po’ di potere deve stare zitto prima di fare.

Quanto conta la Trilateral?
Non determiniamo gli eventi, ma li possiamo condizionare.

Ma ci è o ci fa? (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 26/02/2014. Marco Travaglio attualità

È straordinaria la capacità della politica e della stampa al seguito di concentrarsi sulle scemenze per non affrontare le cose serie. Ora, per esempio, pare che i peccati mortali di Renzi davanti alle Camere siano la prolissità dei discorsi, le mani in tasca, l’omesso Mezzogiorno e soprattutto i mancati salamelecchi a Sua Maestà re Giorgio I e II. In realtà – visti i danni o il nulla combinati dai suoi predecessori nel pieno rispetto del galateo formale, delle promesse parolaie al Sud, ma anche al Nord, ai giovani, agli anziani, le donne, i bambini e i signori di mezza età, con scappellamenti continui all’indirizzo del Colle – di questi stantii rituali possiamo tranquillamente infischiarci. Le questioni che restano aperte dopo il doppio passaggio del premier alle Camere sono ben altre e ben più serie, tanto da suscitare un dilemma inquietante: o Renzi è un genio incompreso che dissimula abilmente le sue virtù salvifiche, oppure è il più grande bluff mai visto nella pur ricca tradizione italiana. Nel titolo qui a fianco e nelle domande che seguono, cerchiamo di spiegare il perché.

1) Il famoso “foglio excel” con il cronoprogramma dettagliato del suo governo che aspira a durare quattro anni e con le relative cifre di copertura finanziaria per le sue promesse da 100 miliardi di euro mal contati, dov’è?

2) È senz’altro nobile che Renzi ripeta “se falliremo sarà colpa mia”, “mi gioco la faccia” e così via: siccome però, se fallirà, a pagarne le conseguenze sarà soprattutto, per l’ennesima volta, il popolo italiano, non sarebbe più onesto e prudente evitare di prendere mille impegni da megalomane su ogni settore dello scibile umano e concentrarsi su poche cose, concrete e fattibili in tempi brevi, tanto per cominciare con il piede giusto e darci qualche assaggio di novità?

3) Nei suoi brevi, anzi lunghi cenni sull’Universo, detratte le appropriazioni indebite di stanziamenti fatti da chi l’ha preceduto, gli unici impegni precisi riguardano le riforme costituzionali (Senato e Titolo V) e quella elettorale. Ma queste sono materie squisitamente parlamentari: nessun governo si è mai occupato di Costituzione e legge elettorale. Per il resto, il programma di governo somiglia pericolosamente a quello di Letta, da cui lui ha ereditato la stessa maggioranza e 6 elementi su 16. Diciamo pure che l’unica vera novità è il premier: davvero Renzi pensa che un paese complesso come l’Italia possa essere salvato grazie all’ennesimo “uomo solo al comando”? Davvero vuol farci credere che l’improvviso e improvvido cambio della guardia a Palazzo Chigi mirava a sostituire il lumacone Letta col pie’ veloce Renzi, o c’è qualcosa in più che ancora ci sfugge?

4) Regnante Letta, Renzi polemizzò con i partiti che facevano melina sulla legge elettorale per tenere in vita artificialmente un governo morto con la scusa che non si poteva votare. Ora, con Renzi, rischia di riprodursi la stessa situazione: come il premier ripete, il peraltro pessimo Italicum è indissolubilmente vincolato all’approvazione delle riforme costituzionali, che non vedranno la luce prima di due anni. Gli pare corretto comprarsi la fiducia dei parlamentari (specie senatori) che vogliono tenersi la poltrona fino al 2018 per conservare la sua per quattro anni?

5) Fra conflitti d’interessi reali e potenziali, diversi neoministri rappresentano una serie impressionante di lobby private: da Cl alle coop rosse, dalle banche alla partitocrazia, da Confindustria al partito trasversale degli inquisiti. Davvero pensa che basti la sua personale “vigilanza” a evitare marchette e automarchette? E questi interessi c’entrano qualcosa col fatto che nei suoi discorsi al Parlamento non c’è traccia di proposte contro mafie, evasione fiscale, corruzione, riciclaggio, criminalità finanziaria? Davvero un premier che aspira a “cambiare verso” deve omaggiare come eroi nazionali i due marò imputati in India per aver accoppato due pescatori anziché i magistrati come Nino Di Matteo che rischiano ogni giorno la pelle nelle trincee dell’antimafia?

Gli azzeccagarbugli Per non far capire: una legge mostro da 749 commi

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Fatto Quotidiano 24/02/2014 Salvatore Cannavò attualità
Al fine di salvaguardare la continuità occupazionale nel settore dei servizi di call center, in favore delle aziende che hanno attuato entro le scadenze previste le misure di stabilizzazione dei collaboratori a progetto di cui all’articolo 1, comma 1202, della legge 27dicembre 2006, n. 296, e successive modificazioni, entro i termini predetti e ancora in forza alla data del 31 dicembre 2013, è concesso, per l’anno 2014, un incentivo pari a un decimo della retribuzione men- sile lorda imponibile ai fini previdenziali per ciascuno dei lavoratori stabilizzati, per un periodo massimo di dodici mesi, nel rispetto dell’articolo 40 del regolamento (CE) n. 800/2008 della Commissione, del 6 agosto 2008. Questo comma, il numero 22 dell’ultima legge di Stabilità, rappresenta uno degli esempi più chiari di norma inserita a fine corsa per favorire alcune aziende del settore dei call center. Chiunque lo legga senza conoscere la materia non saprebbe nemmeno dove collocarlo. I deputati e i senatori che lo hanno proposto hanno potuto confidare nella di- strazione volontaria dei propri colleghi. Ma quanta responsabilità hanno quelle aziende che hanno bussato insistentemente alla porta di questo o quel deputato per farsi favorire in un modo esclusivo? L’esempio è utile per chiarire l’intreccio perverso che alimenta un sistema di relazioni incrociate tra politica, apparati dello Stato, imprese, spesso anche sindacati. Il segreto di questa modalità, però, sta tutto nell’indefinitezza della norma, nella sua inconoscibilità effettiva. Guardiamo il comma 36 della medesima legge: I commi 513 e 514 dell’articolo 1 della legge 24 di- cembre 2012, n. 228, sono abrogati. I commi 1093 e 1094 dell’articolo 1 della legge 27 dicembre 2006, n. 296, e successive modifica- zioni, riacquistano efficacia dalla data di entrata in vi- gore della presente legge. L’autorizzazione di spesa di cui all’articolo 10, comma 5, del decreto-legge 29 no- vembre 2004, n. 282, con- vertito, con modificazioni, dalla legge 27 dicembre 2004, n. 307, è ridotta di 32,8 milioni di euro per l’anno 2015 e di 43,7 milioni di euro a decorrere dal- l’anno 2016. A quale riga dopo la prima vi siete persi? Come si vede siamo di fronte a una sorta di Talmud legislativo per interpretare il quale occorrono dei “sacerdoti” ben pagati, ben coccolati e, soprattutto, dotati di un potere enorme. Gli unici a cui è permesso di scrivere una frase così lunga senza essere rimandati a settembre: “ Per assicurare il contrasto dell’evasione fiscale nel settore delle locazioni abitative e l’attuazione di quanto disposto dai commi 8 e 9 sono attribuite ai comuni, in relazione ai contratti di locazione, funzioni di monitoraggio anche previo utilizzo di quanto previsto dall’articolo 1130, primo comma, numero 6), del codice civile in materia di registro di anagrafe condominiale e conseguenti annotazioni del- le locazioni esistenti in ambito di edifici condominiali ”. Il potere di rendita, di interdizione e di proposta si rende operativo con commi come quello che segue in cui si stanziano le risorse e poi si demanda il ministero (cioè il Capo di gabinetto) alla scrittura del Decreto legislativo: “ È istituito nello stato di previsione del Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare un apposito fondo da ripartire, sentita la Conferenza unificata di cui all’articolo 8 del decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281, con una dotazione di 10 milioni di euro per l’esercizio 2014, di 30 milioni di euro per l’esercizio 2015 e di 50 milioni di euro per l’esercizio 2016 ”. La redazione “ambigua” e “incerta” delle norme può por- tare anche a casi limite come quello relativo alla Card Blu, avviata nel 2012 per gli immigrati ad alta professionalità. Nata per recepire una Direttiva europea, il Decreto le- gislativo varato dal governo Monti prevedeva tra i requi- siti, come nel resto d’Europa, “un percorso di istruzione superiore di durata almeno triennale e della relativa qua- lifica professionale”. A differenza della Germania, però, l’Italia ha inserito una parola, “relativa” che ha significato migliaia di verifiche, controlli, interpretazioni. E mentre in Germania le Card blu in un anno sono state 10 mila, in Italia si sono fermate a 64.