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La Rete senza rete (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 15/01/2014. Marco Travaglio attualità

Quello che pensiamo del reato di immigrazione clandestina lo scriviamo fin da quando fu introdotto da B. con la legge Maroni, subito firmata (come sempre) da Napolitano nel 2009. Quella norma non solo è contraria al diritto (nessuno può essere punito per il suo status, tipo trovarsi nel paese “sbagliato”). Ma è anche inutile (non riduce di una sola unità l’afflusso dei clandestini). E soprattutto dannosa (impegna le forze dell’ordine e le procure su decine di migliaia di fascicoli intestati a irreperibili senza identità né fissa dimora che alla fine – dopo enorme dispendio di risorse e di tempo – vengono quasi tutti assolti o prescritti; o, nel caso eccezionale di condanna, si vedono infliggere una multa che non pagheranno mai perché sono o risultano nullatenenti). Perciò fecero bene i parlamentari 5Stelle, in ottobre, a prendere in contropiede i tromboni dell’accoglienza parolaia, che non avevano mai mosso un dito per cancellare quell’obbrobrio, con la mozione votata anche da Pd, Sel e governo. E fecero male Grillo e Casaleggio a scomunicarli. O meglio: era giusto ricordare la regola interna (opinabile, ma nota da tempo) di discutere in Rete le proposte estranee al “programma”. Ma era assurdo descrivere la mozione come un “liberi tutti” che avrebbe portato il M5S a percentuali da prefisso telefonico: la clandestinità di chi viene in Italia per delinquere non si contrasta con norme demagogiche e inapplicabili. La stampa di regime colse subito l’occasione per riattaccare la black propaganda sui grillini razzisti, xenofobi e un tantino nazisti. L’altroieri, nell’imminenza del nuovo voto parlamentare, il blog di Grillo ha consultato gli 80 mila iscritti con un referendum a sorpresa (com’è giusto fare per evitare manipolazioni e hackeraggi). E riecco i dietrologi all’opera, inclusi i “dissidenti” in servizio permanente effettivo: è il solito blitz dei soliti dittatori Grillo e Casaleggio che non danno il preavviso perché vogliono subornare la Rete, altro che democrazia diretta, leviamogli la pistola e altre baggianate. Giornali e tg avevano già pronti i titoli: “Grillo e Casaleggio truccano il referendum per entrare in Alba Dorata”. Eppure il risultato era prevedibile. S’è discusso molto in questi mesi sul reato di clandestinità, sul blog di Grillo e i social network limitrofi. E i No schiacciavano i Sì. Infatti, su 25 mila votanti, quasi 16 mila han votato No e solo 9 mila Sì.

Ma anziché apprezzare il piccolo saggio di democrazia diretta – embrionale e imperfetto finché si vuole, ma reale – la stampa da riporto è passata al piano B, all’insegna del “come la fai la sbagli”. Citiamo l’Unità, che è sempre la più patetica e ridicola: “Grillo e Casaleggio sconfitti dalla Rete”, “Dimissioni, se Grillo fosse un vero segretario”, “La democrazia diretta di un bischero che smista proclami, condanne e veleno secondo come gli confezionano il gintonic”, “Solo 24 mila votanti”. Chi dovrebbe cercare di capire e di informare continua a trattare i 5Stelle come un branco di brubru, giunti in Parlamento con 9 milioni di voti per uno scherzo del destino: se condividono i leader, non va bene perché sono una mandria di pecoroni plagiati da due tiranni; se dissentono, non va bene lo stesso perché sfiduciano i tiranni (così autoritari che li hanno chiamati a votare liberamente, così come fecero per il candidato al Colle). E comunque sono sempre troppo pochi. In attesa di stabilire quanti dovrebbero essere esattamente, ricordiamo che, prima di aderire alla Grosse Koalition con la Cdu, l’Spd tedesca ha interpellato i suoi 475 mila iscritti che, via email, l’hanno approvata a grande maggioranza (76%). Domandina facile facile: se il Pd (il centrodestra è fuori concorso) avesse consultato i suoi tesserati prima di eleggere il presidente della Repubblica e di andare al governo con B., e li avesse ascoltati, chi siederebbe oggi al Quirinale e a Palazzo Chigi? Piccolo aiutino: il primo comincia con la P e finisce con la i, il secondo comincia con la R e finisce con la à. Ma a un partito che si chiama democratico di ascoltare la base non è proprio venuto in mente.

Chiamparino Settepoltrone (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 14/01/2014. Marco Travaglio attualità

Dunque, sempreché il centrodestra non riesca a resuscitare Cavour o Giolitti o Einaudi (che peraltro difficilmente accetterebbero di mischiarsi a questa banda), Sergio Chiamparino sarà il prossimo presidente della Regione Piemonte. Le elezioni saranno una pura formalità, così come le eventuali primarie del Pd (che probabilmente non si faranno, in barba allo statuto): nessun rivale interno può vantare la sua notorietà, la sua rete di potere e la stampa genuflessa ai suoi piedi. Il Reuccio della Mole ha già ricevuto l’investitura del segretario Matteo Renzi, che lo volle accanto a sé due anni fa alla Leopolda e l’anno scorso lo fece votare dai suoi nei primi scrutini delle presidenziali contro Marini. E questa è la prima stranezza: ma come, il Rottamatore che ha liquidato D’Alema e Veltroni vuole rifilare ai piemontesi questo vecchio dinosauro, più anziano sia di D’Alema sia di Veltroni, che oltretutto da due anni fa il banchiere come presidente della Compagnia di San Paolo, cioè della fondazione che controlla Intesa, il primo gruppo bancario italiano? D’Alema è nato nel 1949, Veltroni nel ’55, Chiamparino nel ’48. Tutti e tre hanno iniziato a fare politica nel Pci nei primi anni 70 come consiglieri comunali: Max nel ’71 a Genova, Uòlter nel ’76 a Roma, Chiampa nel ’75 a Moncalieri. Chiamparino Settepoltrone ha poi collezionato quelle di: segretario regionale della Cgil, segretario provinciale del Pds, consigliere comunale a Torino, deputato del Pds (dal 1996, dopo l’umiliante trombatura del ’94 a Mirafiori contro il berluschino Meluzzi), sindaco dal 2001 al 2011 e, appunto, banchiere elegantemente nominato da Piero Fassino, suo successore a Palazzo di Città. È stato dalemiano, poi veltroniano (responsabile Riforme della segreteria Veltroni e ministro del suo “governo-ombra”), poi franceschiniano, infine renziano. Immunizzandosi dalla rottamazione. E così, se il Piemonte voterà a maggio – cioè se il Consiglio di Stato non sospenderà né annullerà la sentenza del Tar che ha mandato a casa Roberto Cota detto “Mutande Verdi” ed eletto con firme false – Torino completerà il suo tragicomico ritorno al passato. Cioè sarà l’unica metropoli d’Italia dove il tempo non passa mai, comandata dalla stessa classe dirigente di 30 anni fa. Mentre il resto del Paese si prepara alla Terza Repubblica, Torino è ancora impigliata nella Prima.

Nel 1984, mentre lo scandalo Zampini (una delle prime Tangentopoli) terremotava la giunta rossa Pci-Psi, coinvolgendo anche il capogruppo del Pci Giancarlo Quagliotti e il ras del Psi Giusy La Ganga, Fassino era consigliere comunale e Chiamparino capo del dipartimento economico del partito. Nel ’93 i loro nomi fecero capolino nella Tangentopoli doc, per l’appalto del nuovo ipermercato LeGru nella rossissima Grugliasco (mirabile inciucio fra coop rosse e Standa berlusconiana), accanto a quelli del compagno Primo Greganti e del manager Fininvest Aldo Brancher. Sia Sergio sia Piero furono interrogati come testimoni. Non è dato sapere a che titolo si occupassero di centri commerciali. Ma, nonostante i sospetti e qualche accusa non riscontrata, non risultarono aver intascato soldi. Chiamparino, che aveva accettato in dono un telefonino da un faccendiere, mise la mano sul fuoco sul compagno Domenico Bernardi, sindaco di Grugliasco: “Se ha preso tangenti, sono un cretino”. Un mese dopo Bernardi fu arrestato e confessò una mazzetta di 65 milioni di lire. Intanto Quagliotti e La Ganga venivano condannati per le tangenti Fiat. Ora Quagliotti è il braccio destro di Fassino e La Ganga è un suo fedelissimo in consiglio comunale. Tutti convertiti al renzismo. Tra un po’, dopo essersi scambiati la carica di sindaco, Sergio & Piero siederanno sulle due poltrone più alte di una città che pare irrimediabilmente ibernata agli anni 80. Condannata a rivivere continuamente un passato che non passa, anche grazie al centrodestra più ridicolo mai visto persino in Italia. Chiamparino è come il diamante: è per sempre.

Il capitale subumano (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 12/01/2014. Marco Travaglio

Quando le intercettazioni dell’inchiesta sulla cricca della Protezione (In)civile immortalarono i due (im)prenditori che se la ridevano di gusto per il terremoto dell’Aquila appena tre giorni dopo la scossa fatale che aveva ucciso 309 persone, si pensò a un caso estremo, eccezionale, irripetibile di disumanità. Ora, dalle telefonate di 18 mesi dopo pubblicate dal Fatto e tratte da un’indagine frettolosamente archiviata dalla vecchia Procura dell’Aquila e riaperta da quella nuova, si comprende che quelle non erano le solite mele marce in un cestino di mele sane: è l’intero cestino che è marcio. L’assessore aquilano di centrosinistra Ermanno Lisi che, di fronte alla sua città in macerie, definisce il terremoto che l’ha distrutta una “botta di culo” per “le possibilità miliardarie” di “tutte ‘ste opere che ci stanno” e che “farsele scappa’ mo’ è da fessi, è l’ultima battuta della vita… o te fai li soldi mo’… o hai finito”, non è un fungo velenoso spuntato dal nulla. É la punta più avanzata di un sistema che chiamare corruzione è un pietoso eufemismo. Questi non sono corrotti. Questi sono subumani, vampiri, organismi geneticamente modificati che mutano continuamente natura verso la più bruta bestialità grazie all’omertà e all’inerzia di chi dovrebbe controllarli, fermarli, cacciarli. Non stiamo parlando di reati (per quelli c’è la giustizia, che con l’arrivo del procuratore Fausto Cardella è in buone mani anche all’Aquila). Ma di un’antropologia mostruosa che nessuno può dire di non aver notato. Che pena il sindaco Cialente, quello che garantiva vigilanza costante sugli appalti e sfilava con la fascia tricolore alla testa dei terremotati puntando il dito contro i governi che lesinavano aiuti, e non riusciva neppure a liberarsi di politici, professionisti e faccendieri come il capo dell’ufficio Viabilità del suo Comune che affidava lavori alla ditta del suocero. Il caso vuole che queste intercettazioni escano in contemporanea con il film di Paolo Virzì Capitale umano e con le demenziali polemiche per il presunto, ridicolo “vilipendio di Brianza”. Il film, straordinario grazie anche allo strepitoso cast, è ispirato al romanzo di Stephen Amidon e, anziché in Connecticut, è ambientato a Ornate. Ma l’ultima cosa che fa venire in mente a una persona normale (dunque non a certi leghisti e giornalisti di Libero, del Foglio e del Giornale) è la Brianza. É una storia universale – ben scritta da Francesco Bruni e Francesco Piccolo – di capitalismo finanziario selvaggio che, ai livelli più alti come in quelli più bassi, pensa di poter fare soldi con i soldi e intanto annienta sentimenti, amicizie, affetti, famiglie, cultura, vite umane. Vite che, quando si spengono, vengono misurate anch’esse in denaro, col registratore di cassa, dunque non valgono più nulla. “Abbiamo scommesso sulla rovina del nostro paese e abbiamo vinto”, dice trionfante il protagonista, Giovanni Bernaschi (Fabrizio Gifuni), mentre il suo alter ego straccione, Dino Ossola (Fabrizio Bentivoglio), si vende la figlia per riprendersi i 900mila euro perduti in una speculazione andata a male. Gli unici scampoli di umanità li preservano le donne, interpretate magistralmente dalle due Valerie, Golino e Bruni Tedeschi, e dall’esordiente Matilde Gioli.

Il merito principale del film è di illuminare le radici del fallimento di un paese ormai inutile, addirittura dannoso. Quello che si illudeva di chiudere il berlusconismo come fosse una parentesi e non lo specchio, la biografia di una certa Italia che Berlusconi ha soltanto sdoganato e resa orgogliosa della sua mostruosità, ma che gli preesisteva e gli sopravviverà: nelle classi dirigenti di destra di centro di sinistra, ma anche in vaste aree della “società civile”. Ogni squalo che fa soldi sulla pelle della gente, per ogni pirata che ruba sugli appalti, per ogni vampiro che succhia il sangue ai morti del terremoto si regge sul silenzio complice di decine, centinaia di persone. Che, fatta la somma, sono milioni. Troppe per sperare in un cambiamento imminente. Ma non troppe per rinunciare a prepararlo subito.

L’editoriale di Marco Travaglio Servizio Pubblico del 09/01/2014. Saccomanni #Saccodanni”

Fonte http://tv.ilfattoquotidiano.it/2014/01/09 attualità
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L’EDITORIALE DI MARCO TRAVAGLIO

Il Faraone del Katonga (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 09/01/2014. Marco Travaglio attualità

Era da mezzo secolo, da quando Totò si travestì da ambasciatore del Katonga col lucido da scarpe in faccia, l’anello al naso e la feluca di ordinanza nel film Totòtruffa ’62, che non si rideva tanto. Ai primi di quest’anno il Quirinale, non si sa nella persona di quale altissimo funzionario, ha protestato con l’ambasciata francese a Roma per una modesta critica mossagli sul suo blog dal corrispondente di Le Monde, Philippe Ridet. Dopo uno dei tanti moniti da Pizia di Delfi per una tregua nel presunto scontro fra politici e magistrati, Ridet aveva invitato Napolitano a uscire dall’ipocrisia e a chiamare i “politici” col loro nome: Berlusconi. Apriti cielo: “Il Colle – racconta Philippe a Beatrice Borromeo – ha chiamato l’ambasciata francese per lamentarsi del mio articolo. Mi è venuto da sorridere, tanto né l’ambasciata né il mio giornale hanno fatto una piega, ovviamente”. In quel “sorridere” e in quell’“ovviamente” c’è tutto l’abisso che separa il sultanato del Napolitanistan dal mondo libero. Immaginiamo la scena, e soprattutto la faccia dell’ambasciatore: “Pronto, è l’ambasciata di Francia? Signorina, è il Quirinale, mi passi l’ambasciatore. Pronto, signor ambasciatore, perdoni il disturbo, ma il fatto è davvero grave: un giornalista del vostro paese si è permesso di criticare Sua Altezza Reale. Non lo sapete che è severamente proibito? Non avete ricevuto le ultime disposizioni dell’Ufficio Stampa e Propaganda? Egli è intoccabile, inascoltabile e ineffabile per diritto divino. Prendete buona nota e diramate a tutti i vostri corrispondenti. Per questa volta, passi. Ma la prossima scatta il foglio di via”. Per vent’anni molti si erano illusi che l’anomalia italiana riguardasse solo B. e i suoi cari, così allergici alle critiche della libera stampa (quella straniera) da molestare le diplomazie di mezzo mondo perché facessero ciò che lui faceva in Italia.

Nel 2002 il governo B. ritirò la sua delegazione dal Salone del Libro di Parigi perché il sottosegretario alla Cultura Vittorio Sgarbi era stato contestato da giovani italiani e francesi e snobbato dal ministro Catherine Tasca. E quando il canale tv franco-tedesco “Arte” trasmise un reportage su “L’irresistibile ascesa di S. Berlusconi”, il Caimano telefonò personalmente al premier Jean-Pierre Raffarin per protestare e chiedere di non replicarlo più. Raffarin rispose incredulo che in Francia il governo non fa i palinsesti televisivi, lì non si usa. Nel 2004 il documentario Citizen Berlusconi sui primi anni di regime berlusconiano fu selezionato all’European Documentary Festival di Oslo: B. ordinò all’ambasciatore italiano in Norvegia di intervenire per bloccarlo, e quello obbedì. Ma giornali e tv locali denunciarono la censura, il pubblico impose la proiezione in ben tre repliche, tanta era la folla interessata a vederlo. Nel 2010 il ministro della Cultura Sandro Bondi disertò il Festival di Cannes perché osava ospitare Draquila, il docufilm di Sabina Guzzanti sugli scandali del dopo-terremoto in Abruzzo. Thierry Frémaux, il direttore del Festival, ironizzò sul ministro che “boicottando il festival ha fatto un buon lavoro” e deplorò l’“inconcepibile atteggiamento contro la libertà di espressione”.

Ecco, qualcuno pensava che – archiviato B. – si potesse serenamente chiudere la parentesi dopo vent’anni e ricominciare. Non era, non è così. L’epatite “B.” ha contagiato tutta la politica e oggi chiunque eserciti una fetta di potere, dal Colle in giù, pretende l’adorazione dei sudditi e scambia ogni critica per lesa maestà. Napolitano – osserva Ridet – “fa politica attivamente, senza sosta” ed “è normale criticarlo sul piano politico”. Invece “ha sempre più l’aura del Re”, anzi del “Faraone” e “sembra che non si possa più giudicarlo, che vada lodato dalla mattina alla sera”. Manco fosse “la regina d’Inghilterra”. La quale peraltro non si sognerebbe mai di chiamare un’ambasciata straniera per protestare contro le critiche della stampa estera al suo ultimo cappellino. Queste sono cose che capitano solo nel Katonga, senza offesa per il Katonga.

Ma mi faccia il piacere (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 06/01/2014 .Marco Travaglio attualità

La posta del cuore. “Cercherò di mettere innanzitutto in evidenza le preoccupazioni e i sentimenti che ho colto in alcune delle molte lettere indirizzatemi ancora di recente da persone che parlando dei loro casi hanno gettato luce su realtà diffuse oggi nella nostra società. Vincenzo, che mi scrive da un piccolo centro industriale delle Marche…” (Giorgio Napolitano, 31-12-2013). Nicola M. invece mi ha telefonato quattro volte, ma ho fatto bruciare i nastri. Non ci resta che leccare. “Esprimo totale sintonia con le parole e gli auspici del messaggio del Capo dello Stato. L’Italia che vuole rialzarsi e costruire con opportune e tempestive riforme si riconosce nei toni e nell’orizzonte delineato dal Presidente Napolitano. Le parole di queste ore contro il Quirinale e contro il ruolo che ha giocato in questo 2013 per salvare l’Italia sono espressione di una politica destruens alla quale – ne sono convinto – faremo argine con successo l’anno prossimo, come e meglio di quanto l’abbiamo fatto in questi mesi” (Enrico Letta, 31-12-2013). “Il discorso di Napolitano è stato il più bello degli ultimi anni” (Pierferdinando Casini, 31-12-2013). “Un grandissimo statista e vero servitore della Patria: senza la sua sapienza sarebbe venuta giù l’Italia” (Matteo Colaninno, Pd, 1-1-2013). “Il Presidente ha ormai assunto il ruolo di papà della patria” (Beppe Severgnini, Corriere della sera, 2-1). “Il discorso di fine anno del presidente della Repubblica a me è parso misurato, fermo, commosso e insomma perfetto” (Eugenio Scalfari, la Repubblica, 5-1). “Santissimo Savonarola… Come sei bello… Quanto ci piaci a noi due!… Ti salutiamo con la nostra faccia sotto i tuoi piedi… Senza chiederti nemmeno di stare fermo! Puoi muoverti! E noi zitti sotto… Punto!… Non volevamo minimamente offendere, tuoi peccatori di prima… Con la faccia dove sappiamo” ( R oberto Benigni e Massimo Troisi, Non ci resta che piangere, 1985).

Dicerie. “È nata una polemica sul tema del peccato e, a detta di alcuni miei critici, io avrei sostenuto che il Papa lo ha di fatto abolito” (Eugenio Scalfari, la Repubblica, 5-1). “La rivoluzione di Francesco ha abolito il peccato” (Eugenio Scalfari, la Repubblica, 29-12-2013)

Horrorpolitik. “Letta e l’incontro con Matteo: ‘Non mi schiacciare su Alfano’” (la Repubblica, 2-1). Chè m’è scaduta l’antitetanica.

Largo ai giovani. “Ma fino a che età è giusto guidare l’auto?” (Corriere della sera, 4-1). Almeno fino a 88 anni. Poi alla peggio si va al Quirinale e si guida la Repubblica.

Family. “Alfano: no alle unioni civili, prima viene la famiglia” (La Stampa, 4-1). La sua. Utility. “A Renzi chiediamo rispetto, non possiamo essere considerati come degli utili idioti” (Fabrizio Cicchitto, Ncd, La Stampa, 4-1). In effetti non è che siano molto utili.

Von Letten. “Spread sotto i 200. Letta: la stabilità paga” (l’Unità, 4-1). In Germania.

Povero Merlo. “Grillo scatenerà i funzionari del fanatismo che ha mandato in Parlamento e i digitanti incappucciati, truppe d’assalto della diffamazione impunita sostenuti dai sempre più lividi professionisti del nome storpiato ‘alla Travaglio’” (Francesco Merlo, la Repubblica , 2-1). Su, dai, Merlo, non fare così, chè il tuo nome – come il mio – non c’è bisogno di storpiarlo.

Formigay. “Formigoni minaccia la crisi: ‘Non tratto sui gay’” (Libero, 3-1). Vestono troppo sgargiante.

Finalmente libero. “Il tunisino Walid Chaabani, pregiudicato da tempo agli arresti domiciliari per reati connessi allo spaccio di stupefacenti, stanco dei continui litigi con la consorte, ha chiesto di poter scontare il resto della pena in carcere. I carabinieri hanno attivato l’Ufficio di sorveglianza del Tribunale di Livorno che ha emesso un ordine di carcerazione e i militari hanno tradotto l’extracomunitario nella casa circondariale” (Libero, 4-1). Vanificando così mesi di lavoro e due decreti svuotacarceri della ministra Cancellieri.

Buon appetito. “Nord Corea, il dittatore folle Kim fa sbranare lo zio da cani affamati” (La Stampa, 4-1). Astenersi inappetenti.

Le 5Stelle stanno a guardare (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 05/01/2014. Marco Travaglio attualità

Mi scrivono diversi elettori dei 5Stelle per contestare il mio articolo “I guardiani dello stagno”. In sintesi, ripetono ciò che dice Beppe Grillo. 1) Di Renzi non c’è da fidarsi, men che meno del Pd. 2) Noi non facciamo accordi con nessuno e il nuovo sistema elettorale lo discutiamo in Rete con la nostra base. 3) Questo Parlamento è delegittimato dalla sentenza della Consulta sul Porcellum e dunque non può riformarlo. 4) Napolitano deve sciogliere le Camere, mandarci a votare con il vecchio Mattarellum e lasciare che sia il nuovo Parlamento finalmente eletto e non più nominato a metterci mano. In linea di principio, sono tutti argomenti, se non condivisibili, almeno rispettabili. Ma completamente fuori dalla realtà.

1) Per sapere se Renzi sia affidabile o meno, bisogna andare a vedere le sue carte. Se nasconde un bluff, peggio per lui. In caso contrario, peggio per i 5Stelle. Qui non si tratta di firmargli una cambiale in bianco, né – come chiedeva Bersani – di votare la fiducia al buio a un governo deciso da altri e altrove: si tratta di vedere se, nei mesi che mancano all’auspicata fine di questa ridicola legislatura, si possano approvare alcune riforme di rottura che rientrano nel programma dei 5Stelle, ma soprattutto negli auspici di tanti italiani, indipendente da come votano. Renzi propone un ventaglio di tre leggi elettorali, un taglio dei fondi pubblici ai consigli regionali, le unioni civili, e l’abolizione del Senato per farne un caravanserraglio di consiglieri regionali. Le prime tre proposte sono buone, la terza pessima. I 5Stelle possono pescare alcune delle proprie proposte più fattibili (embrione di reddito minimo, blocco del Tav Torino-Lione, legge draconiana anti-corruzione e anti-evasione), metterle sul tavolo e discutere con i delegati di Renzi (il Pd, in Parlamento e al governo, è tutt’altra cosa), condizionando il tutto alla rinuncia immediata e definitiva del Pd ai “rimborsi elettorali”. Cos’hanno da perdere? 2) Discutere la legge elettorale in Rete è un’ottima cosa, ma nel frattempo i partiti la discutono in Parlamento e poi l’approvano, pressati dall’imminente pubblicazione della sentenza della Consulta. Se i 5Stelle non partecipano alla discussione e non fanno pesare i propri voti, nascerà una maggioranza Pd-Forza Italia sul modello spagnolo, che favorirà solo quei due partiti (che, con gli alleati-satellite, hanno finora avuto più voti) a scapito di tutti gli altri, 5Stelle in primis. 3) Questo Parlamento è delegittimato, ma chi dice che non può riformare la legge elettorale senz’avere i numeri per impedire agli altri di farlo fa declamazioni oratorie fine a se stesse e – vedi punto 2 – suicide. 4) Lo stesso vale per l’appello a Napolitano perché sciolga le Camere e si dimetta: il presidente ha già detto che non lo farà e i 5Stelle non hanno i numeri per cacciarlo con l’impeachment. Anzi, con il loro immobilismo, fanno di tutto per lasciarlo lì fino al 2020.

Solo facendo saltare l’asse Quirinale-Letta-Alfano si accelera lo sfarinamento del governo Letta e l’addio del suo Lord Protettore. E poi che senso ha dire che questo Parlamento non può cambiare la legge elettorale e che bisogna votare col Mattarellum? Se si sciolgono le Camere ora, il Mattarellum non c’è. C’è invece la legge elettorale ritagliata dalla Consulta con l’abrogazione del premio di maggioranza e delle liste bloccate, cioè il sistema del 1992: il proporzionale puro con sbarramento e preferenza unica con cui si votò per l’ultima volta nella Prima Repubblica. Un sistema che ci condannerebbe alle larghe intese in saecula saeculorum, salvo che un partito o una coalizione non superi il 50% dei voti (mission impossible). È curioso che a battersi per un simile scenario horror sia proprio la forza politica che ne sarebbe più penalizzata. Chi vuole il Mattarellum deve rimboccarsi le maniche, prendere in parola Renzi e sfidarlo a votare la sua proposta numero 2. Se invece, croninianamente, i 5Stelle stanno a guardare, non fanno che fornire ai loro nemici la corda per impiccarli

Colle Oppio (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 03/01/2014 Marco Travaglio

Siccome i sondaggi vanno maluccio, la stampa corazziera spaccia l’indice di ascolto del Supermonito di Capodanno per l’indice di gradimento del presidente. Come se il discorso di Napolitano fosse un varietà del sabato sera. Naturalmente l’ascolto dice soltanto quante persone erano davanti alla tv, non quante hanno condiviso le cose dette (e soprattutto non dette). I telespettatori sintonizzati sulle reti unificate erano 9,98 milioni contro i 9,8 del 2012, cioè 180 mila (2% circa) in più: un po’ per la curiosità di sentire come Napolitano avrebbe risposto alle critiche dei suoi oppositori (prima non ne aveva mai avuti), un po’ perché la crisi ha trattenuto in casa molta più gente dell’anno prima. Infatti lo share – calcolato sul totale dei telespettatori con la tv accesa – è calato: 53% contro il 55 del 2012 (-2%). Resta da capire dove mai l’Unità abbia tratto il dato degli “ascolti record (più 12,2%)”. È vero invece che il ridicolo boicottaggio di Forza Italia è fallito: ascoltare quel che ha da dire il capo dello Stato è comunque interessante, anche – anzi soprattutto – per chi lo critica: le critiche devono essere sempre motivate, non fatte a casaccio. Tutt’altra storia è il messaggio di Beppe Grillo, politicamente rilevante per i contenuti ma soprattutto per i toni, decisamente nuovi rispetto al recente passato. Non è vero che fosse la prima volta che i due messaggi si sovrapponevano la stessa sera: Grillo arringa gli italiani quasi a ogni Capodanno fin dal 1998, quando al Quirinale c’era ancora Scalfaro. In ogni caso il raffronto con Napolitano è impossibile: Grillo non ha lanciato alcun boicottaggio e soprattutto non ha a disposizione Rai, Mediaset, La7 e Sky, ma solo il suo blog per la diretta streaming (subito saltata per eccesso di contatti) e poi youtube: in tutto quasi 1 milione di spettatori.

Tutti questi numeri però rischiano di narcotizzare la gente oscurando la vera novità del Supermonito: la malcelata coda di paglia per i deragliamenti degli ultimi anni e per la versione ufficiale della rielezione, che continua a fare acqua da tutte le parti. Dopo aver mandato avanti la stampa corazziera a propinarcela in tutte le salse, Sua Maestà l’ha raccontata lui stesso l’altra sera. Ma, rivedendosi, dev’essersi reso conto che non funzionava. Così ieri s’è registrato il replay di dieci giorni fa, quando una lettera di Cossiga approdò sulle prime pagine di Stampa, Corriere e Messaggero dopo essere “uscita dall’archivio personale di Napolitano” (Marcello Sorgi dixit). Stavolta, aggirando un’altra volta i ferrei controlli dei corazzieri sull’uscio del Quirinale, è uscita a fare due passi e a prendere una boccata d’aria un’altra missiva, firmata da Sua Altezza in persona, datata 15 aprile 2013 e indirizzata a Bersani, Monti e Alfano. E si è autorecapitata al Corazziere della sera: “Cinque pagine – scrive Marzio Breda – per sgombrare ogni equivoco sulla rielezione che diversi emissari già gli avevano chiesto: sarebbe ‘una soluzione di comodo’, una non soluzione”. E questa sarebbe la “prova documentale delle sue volontà”. Infatti il Corriere titola: “Quella lettera per evitare il secondo mandato”. Purtroppo, come si dice in Veneto, l’è pezo el tacon del buso. Per evitare il secondo mandato non c’era bisogno di scrivere lettere: bastava rifiutare la proposta indecente di B., cui si associarono Bersani, Maroni e Monti, e rispedirli tutti a votare in Parlamento, dove c’era un candidato perfetto: Stefano Rodotà, che avrebbe potuto raggiungere il quorum di 504 voti con quelli sicuri di M5S (162) e di Sel (44) e con i due terzi dei grandi elettori Pd (ne bastavano 298 su 452, vanificando fino a 146 franchi tiratori, ben più dei 101 mancati a Prodi). Già, ma Rodotà presidente avrebbe escluso lo sconfitto B. dalla maggioranza, scongiurato l’inciucio appena bocciato dagli elettori e propiziato il “governo di cambiamento” – magari per pochi mesi – che Bersani sbandierava ma rendeva impossibile con la sua stessa presenza. Un governo che nessuno voleva: a parte la stragrande maggioranza degli italiani, si capisce.

Colle 22 (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 02/01/2014 Marco Travaglio attualità

Metteva tristezza, molta tristezza, l’ottavo monito di Capodanno del Presidente Monarca. Triste il tentativo disperato di recuperare uno straccio di rapporto con la gente comune dopo il crollo di popolarità nei sondaggi (dall’84% di due anni fa al 47-49 di oggi) inaugurando la rubrica “La posta del cuore”: Sua Maestà ha declamato alcune lettere di sudditi in difficoltà per la crisi, omettendo quelle critiche e senza rispondere a nessuna. Triste l’evocazione del dramma degli esodati e il silenzio su chi li ha condannati alla miseria: il governo Monti e la ministra Fornero, creati in laboratorio da lui stesso.Triste l’appello al cambiamento e al rinnovamento della classe politica lanciato da un veterano della Casta entrato in Parlamento nel lontano 1953 per non uscirne mai più. Triste l’encomio al governo Letta jr. per le “misure recenti all’esame del Parlamento in materia di province e di finanziamento pubblico dei partiti”, due maquillage gattopardeschi che non faranno risparmiare un solo euro alla collettività. Triste il successivo atteggiarsi ad arbitro imparziale: “Non tocca a me esprimere giudizi di merito sulle scelte compiute dall’attuale governo… il solo giudice è il Parlamento”, come se non avesse appena elogiato due scelte compiute dall’attuale governo. Triste la citazione con nomi e cognomi dei due marò imputati in India per aver accoppato due innocenti pescatori indiani e spacciati per eroi nazionali martirizzati per la guerra alla pirateria; e, al contempo, il silenzio sul pm Nino Di Matteo condannato a morte da Totò Riina e sui suoi colleghi palermitani minacciati dalla mafia. Tristemente beffardo l’accenno alla Terra dei Fuochi come un “disastro” contro l’“ambiente”, senza una sola parola sulle 150 mila cartoline con le foto dei bambini morti di cancro per un crimine perpetrato dalla camorra e insabbiato per quasi vent’anni dallo Stato, fin da quando lui, Napolitano, era ministro dell’Interno. Tristemente imbarazzante l’autoelogio per lo scrupoloso rispetto delle prerogative presidenziali: “Nessuno può credere alla ridicola storia delle mie pretese di strapotere personale”. Lo dice lui, dunque c’è da credergli: come all’oste che assicura che il vino è buono.

Triste l’excusatio non petita (accusatio manifesta) per la rielezione, sempre smentita e poi accettata dopo ben un quarto d’ora di tormento interiore: “Tutti sanno (a tutti è stato raccontato, ndr) – anche se qualcuno finge di non ricordare – che il 20 aprile, di fronte alla pressione esercitata su di me da diverse e opposte forze politiche perché dessi la mia disponibilità a una rielezione a Presidente, sentii di non potermi sottrarre a un’ulteriore assunzione di responsabilità verso la Nazione in un momento di allarmante paralisi istituzionale”. Peccato che il 20 aprile, dopo la quarta votazione a vuoto per il nuovo presidente, non ci fosse alcuna “paralisi istituzionale”: ben quattro presidenti non furono eletti nei primi quattro scrutini (Saragat passò al 21°, Leone al 23°; Pertini e Scalfaro al 16°), altri quattro passarono al quarto (Einaudi, Gronchi, Segni e Napolitano) e solo tre al primo colpo (De Nicola, Cossiga e Ciampi). E peccato che nessuno abbia ancora spiegato come fu che il mattino del 20 aprile, nel giro di due ore, Bersani, Berlusconi e Gianni Letta, Maroni, Monti e 17 governatori regionali su 20 abbiano avuto tutti insieme la stessa idea di salire in pellegrinaggio al Colle, sincronizzati disciplinatamente, per chiedergli di restare: furono colti tutti e 22 contemporaneamente da un attacco di telepatia o qualcuno suggerì loro quella scelta e dettò loro i tempi delle visite scaglionate? Triste, infine, la conferma del suo “mandato a tempo” e “a condizione”, espressamente vietato dalla Costituzione. Che, all’articolo 85, recita: “Il presidente della Repubblica è eletto per sette anni”. Non per la durata che decide lui, né tantomeno alle condizioni che impone lui.

Alla base di quella norma costituzionale tanto secca quanto perentoria c’è un motivo molto semplice: le istituzioni e i cittadini devono sapere quando scade il presidente e viene eletto il successore, affinché le elezioni presidenziali non condizionino permanentemente la normale vita democratica. Ma Napolitano se ne frega e conferma: “Resterò Presidente fino a quando la situazione del Paese e delle istituzioni me lo farà ritenere necessario e possibile… e dunque di certo solo per un tempo non lungo”. Cioè soltanto finché durerà il presunto stato di necessità, che però non dipende da fattori oggettivi e da tutti verificabili, ma esclusivamente dal suo insindacabile capriccio. Se ne andrà quando non sarà più necessario, ma il necessario lo decide lui. Dal Comma 22 al Colle 22. Così ogni giorno, ogni minuto, il Parlamento rimarrà ricattato da questa spada di Damocle, e ogni volta che deciderà qualcosa su qualunque materia, dalla legge elettorale in giù, ogni parlamentare si domanderà se stia facendo il meglio non per gli elettori, ma per il capo dello Stato. Che sarà dunque il padrone assoluto del Parlamento, e quindi del governo: perché ha annunciato che si dimetterà certamente prima del 2020, ma non ha precisato quando. Insomma resterà una mina vagante in grado di condizionare governi, maggioranze e opposizioni, ma anche l’elezione del successore (che, se Napolitano se ne andrà prima delle prossime elezioni, rispecchierà verosimilmente l’attuale asse Pd-Udc-Sc-Ncd; se invece sloggerà dopo, ne rifletterà un’altra ancora tutta da immaginare). E meno male che dice di conoscere bene “i limiti dei miei poteri e delle mie possibilità”: deve averglieli spiegati, in sogno, il Re Sole.

Obtorto Colle (Marco Travaglio).

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Da Il Fatto Quotidiano del 21/12/2013 Marco Travaglio attualità

Si spera che la delegazione del Csm, guidata dal sempre garrulo e ridanciano vicepresidente Michele Vietti in un’epocale trasferta a Palermo, abbia trovato la città di suo gradimento. Che il clima fosse dolce, la temperatura mite, l’albergo accogliente, le sarde a beccafico cotte a puntino, il pane con panelle fragrante, la cassata e i cannoli alla ricotta appena sfornati. Se così non fosse, sfuggirebbe il senso della gita fuori porta di quello che un tempo era l’organo di autogoverno della magistratura e da tempo s’è ridotto all’ennesimo ente inutile, anzi dannoso in quanto molto costoso, al servizio di Sua Maestà Re Giorgio. Era parso di capire che la visita di 7 consiglieri su 27 nel capoluogo siciliano fosse finalizzata a esprimere di persona la solidarietà al pm Nino Di Matteo, destinatario di ripetuti ordini di morte pronunciati da Salvatore Riina in colloqui intercettati con un boss pugliese, e ai colleghi impegnati con lui nel processo e nelle nuove indagini sulla trattativa Stato-mafia, e per questo attaccati da politici, giornalisti, presunti giuristi, presunte istituzioni e minacciati da lettere e visite a domicilio mezzo mafiose e mezzo istituzionali. Tant’è che il Pg Gianfranco Ciani, membro di diritto del Csm, 15 mesi dopo aver aperto un fascicolo disciplinare su Di Matteo per un’innocua anzi doverosa intervista sulle telefonate Mancino-Napolitano, proprio due giorni fa aveva chiesto di archiviarla per rendere meno imbarazzante la trasvolata dei colleghi. Ma era solo un’impressione, già peraltro smentita dalla “delibera di particolare urgenza” emessa dall’illustre consesso il 18 dicembre, con la consueta litania paracula della “presenza solidale nei confronti dei magistrati oggetto di gravi e reiterate minacce”. Dunque, ad avviso di questi buontemponi – due terzi dei quali dovrebbero essere magistrati e dunque riuscire a cogliere la differenza che c’è fra una minaccia anonima e l’ordine di un boss di organizzare una strage come quelle del 1992-’93 per eliminare un magistrato, come fu per Falcone e Borsellino – Di Matteo non merita di essere citato con nome e cognome per quello che è: cioè il nemico pubblico numero uno del più feroce stragista italiano di tutti i tempi. Casomai ve ne fosse ancora bisogno, ieri la promenade dei sette gitanti ha accuratamente evitato di incrociare, anche soltanto di striscio, Di Matteo e i suoi colleghi impegnati nelle indagini sulla trattativa: e cioè il procuratore aggiunto Vittorio Teresi e i sostituti Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia. I quattro erano regolarmente nei loro uffici a lavorare, ma Vietti & C. hanno girato alla larga, preferendo incontrare i “capi degli uffici”, i vertici dell’Anm locale e naturalmente i rappresentanti dell’avvocatura. “Sono qui con una delegazione del Csm per manifestare vicinanza ai magistrati che lavorano qui anche a rischio dell’incolumità”, ha tromboneggiato Vietti, con una frase che avrebbe potuto pronunciare in un giorno qualunque di un anno qualunque di un secolo qualunque, visto che da sempre a Palermo i magistrati antimafia lavorano anche a rischio dell’incolumità. Oggi il rischio maggiore lo corrono i suddetti quattro magistrati, e proprio perché indagano sulla trattativa. Ma questi, mentre Vietti parlava senza mai nominare né loro né la trattativa, non erano presenti, perché nessuno li aveva invitati. “Solidarietà in contumacia”, ha ironizzato uno di loro. “Non siamo stati noi a organizzare la visita”, ha tentato di difendersi Vietti, smentito dalla delibera del Csm che non prevedeva alcun incontro con i quattro pm. Ciò che impedisce al Csm e al suo vicepresidente Vietti di pronunciare le paroline “Di Matteo” e “trattativa” non è un improvviso attacco di dislessia. È la suprema volontà di Sua Altezza, che ieri ha fatto gli auguri perfino ai due marò imputati per aver accoppato due pescatori indiani: ma ai quattro pm della trattativa no. I sette nani si sono prontamente allineati. E a Di Matteo, anziché la “presenza solidale”, han fatto sentire tutta l’assenza ostile dello Stato. Se restavano a casa, facevano meno danni.